La strategia dello Stato islamico dopo la morte del suo leader

Di Rodolfo Casadei
05 Febbraio 2022
Tribù arabe emarginate dal sistema di potere curdo nel nord-est della Siria e dal governo dominato dagli sciiti in Iraq hanno ricominciato a fornire combattenti all’Isis, entrata in una fase tattica di guerriglia che non prevede il controllo stabile di territori
Un edificio danneggiato dopo il raid delle forze speciali americane in cui è morto il leader dello Stato islamico
Un edificio danneggiato dopo il raid delle forze speciali americane in cui è morto il leader dell'Isis Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi

L’uccisione del califfo dello Stato Islamico Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi in un raid delle forze speciali americane nella cittadina di Atme descrive la situazione molto speciale in cui si trova l’Isis dopo la caduta della sua capitale Mosul nel luglio del 2017: le aree geografiche dove le azioni militari delle residue forze del califfato presentano maggiore intensità sono il nord-est della Siria e, per quanto riguarda l’Iraq, la regione a nord di Baghdad.

L’ultima ridotta delle milizie jihadiste

Ma il califfo Abu Bakr al-Baghdadi e il suo successore al-Qurayshi hanno trovato entrambi rifugio nel governatorato dell’Idlib, la regione nel nord-ovest della Siria che è diventata l’ultima ridotta delle milizie jihadiste e filo-turche ostili al governo di Damasco e allo stesso tempo territorio occupato dalle forze armate della confinante Turchia, che hanno installato almeno 70 basi e avamposti militari nella regione. Atme, dove è stato scovato al-Qurayshi, dista appena 20 chilometri da Barisha, dove il 27 ottobre 2019 gli americani eliminarono al-Baghdadi. E mentre la seconda dista 5 chilometri dal confine con la Turchia, Atme dista meno di un chilometro, e ospita fra l’altro un ospedale di Medici senza frontiere.

In teoria il territorio dovrebbe ricadere sotto il controllo di Hay’at Tahrir al-Sham, l’organizzazione ombrello dei ribelli siriani jihadisti nata attorno a quella che fino all’inizio del 2017 era Jabhat al-Nusra, formazione affiliata ad al-Qaeda e responsabile delle violenze più atroci da parte ribelle nella guerra civile siriana.

I leader jihadisti di tutte le fazioni, compresi quelli dell’Isis, avrebbero scelto l’Idlib come rifugio perché in esso sarebbe più facile mimetizzarsi fra i milioni di sfollati siriani che vi si sono riversati man mano che i ribelli retrocedevano dal resto del territorio siriano sotto l’avanzare delle forze governative e dei loro alleati russi, iraniani e libanesi. Il motivo della scelta potrebbe anche essere diverso da questo, tenuto conto che il confine dell’Idlib con l’adiacente Turchia è estremamente permeabile, e che molti leader jihadisti lo attraversano in continuazione, segnalati per breve tempo in territorio turco.

L’ultimo esponente della cerchia dei primi leader

Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi, il cui vero nome era Amir Muhammad Sa’id Abdal-Rahma al-Mawla, apparteneva alla minoranza etnica dei turcomanni iracheni, considerati il terzo gruppo etnico per numero dell’Iraq dopo arabi e curdi. I turcomanni iracheni sarebbero quasi 4 milioni, discendenti di varie ondate migratorie di popolazioni turche sul suolo mesopotamico. Originario di Muhallabiya, una cittadina (ma anche il nome di un dolce arabo) a ovest di Mosul abitata quasi esclusivamente da turcomanni, aveva scelto un nome di battaglia che tendeva a nascondere le sue radici: Quraysh è infatti il nome della tribù araba alla quale apparteneva Maometto.

Si era laureato in teologia e diritto islamico (sharia) all’università di Mosul, e questo gli era stato utile per salire i gradini prima di al-Qaeda e poi dell’Isis. Avrebbe conosciuto di persona al-Baghdadi nel 2004 mentre entrambi erano prigionieri degli americani a Camp Bucca. Con al-Qurayshi scompare forse l’ultimo esponente della cerchia dei primi leader dell’organizzazione e certamente l’ultimo che poteva presentarsi come uno studioso islamico; a lui si fanno risalire le fatwa che avrebbero permesso i massacri di uomini yazidi e la deportazione e riduzione in schiavitù delle donne yazide.

Diecimila combattenti attivi tra Siria e Iraq

L’uccisione di al-Qurayshi arriva tre giorni dopo la fine dei combattimenti provocati dall’assalto di 500 guerriglieri dell’Isis alla prigione di al-Sinaa nella cittadina di Hassakeh allo scopo di liberare i 3.500 prigionieri jihadisti al suo interno, iniziato il 20 gennaio. Le forze curde delle Fds ed elementi dei corpi speciali americani, insieme ad aerei della coalizione che hanno bombardato alcune postazioni degli assalitori, ci hanno messo ben 10 giorni per riprendere il controllo della situazione e ottenere la resa avversaria. Avrebbero perso la vita 374 militanti jihadisti fra assalitori e detenuti in rivolta, e 121 curdi delle Fds e dei guardiani del carcere.

Secondo un rapporto Onu presentato un anno fa al Consiglio di Sicurezza dall’Ufficio del controterrorismo delle Nazioni Unite, i combattenti attivi dell’Isis sarebbero 10 mila fra Siria e Iraq. La cifra appare sovrastimata, ma non troppo lontana dalla realtà: tribù arabe emarginate dal sistema di potere curdo nel nord-est della Siria e dal governo dominato dagli sciiti in Iraq hanno ricominciato a fornire combattenti all’Isis, entrata in una fase tattica di guerriglia che non prevede il controllo stabile di territori.

Meno attentati ma più mirati

Nel corso del 2020 l’Isis ha rivendicato, attraverso i suoi organi di comunicazione, una media di 110 attacchi e di 207 vittime al mese in Iraq, mentre nel corso del 2021 la media delle rivendicazioni è scesa a 87 attacchi e 149 vittime al mese. Alla diminuzione degli attacchi corrisponde la concentrazione su obiettivi di maggiore visibilità: gli attentati suicidi nel centro di Baghdad nel gennaio dell’anno scorso e quello a Sadr City nel mese di luglio, entrambi con decine di morti, fanno pensare a questo cambiamento di tattica.

In Siria l’Isis ha rivendicato, attraverso il suo organo ufficiale al Naba, nel 2020 una media di 45 attacchi e 95 vittime al mese, scesi a 31 attacchi e 74 vittime al mese nel 2021. Secondo gli analisti americani Gregory Waters e Charlie Winter l’organizzazione non rivendica la maggior parte degli attentati compiuti nel deserto centrale di Siria. Gli attacchi citati nelle sue pubblicazioni rappresentano appena il 25 per cento di quelli che gli sono attribuiti dalle Fds e da altre forze locali. La sottostima potrebbe far parte di una strategia che mira a insediare stabilmente l’Isis nella zona senza attirare troppo l’attenzione.

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