La slavina delle carte bollate
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Forse viene giù la diga. Ma, tranquilli, solo “forse”. Riassunto un po’ grezzamente potrebbe essere questo il messaggio che è stato lanciato a qualche giorno dalle scosse che hanno colpito il Centro Italia da Sergio Corbucci, presidente della Commissione Grandi Rischi, parlando della diga di Campotosto. C’è un “rischio Vajont”, ma niente panico. Risultato? Panico. «È stato così, letteralmente, per qualche ora», conferma a Tempi il sindaco di Ascoli, Guido Castelli, cui in quelle ore il cellulare ha incominciato a scottare fra le dita, tra innumerevoli telefonate di parenti, amici, cittadini, autorità che chiedevano se occorresse evacuare la città.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]«Da agosto viviamo in una situazione di continua emergenza», spiega il primo cittadino. «Le scosse, i morti, la neve e interi quartieri cittadini in black out elettrico. Ci mancava solo l’allarme sulla diga, poi ridimensionato con altre dichiarazioni più prudenti, anche se non del tutto rassicuranti». Dico e non dico. Non affermo ma faccio intendere. Smozzico frasi così che non mi si possa rimproverare, magari da parte di qualche magistrato, di non aver fatto il mio dovere. Il risultato di questo tergiversare, di questo cadenzato movimento a tergicristallo tra certezze opposte? «Panico. E pure parecchia incazzatura».
Intervistato da Giovanni Minoli su La7, l’ex gran capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, è andato dritto al cuore del problema senza troppe fisime linguistiche: hanno svuotato la mia creatura di ogni potere, l’hanno resa meno efficiente, più pigra, più macchinosa. Gli effetti, fatto salvo l’eroico impegno e la generosità dei singoli, li vedono tutti. Hanno buttato la sabbia dei controlli e della delegittimazione negli ingranaggi e oggi, ha sentenziato Bertolaso, «c’è una risposta meno pronta, meno determinata e meno convinta a livello di vertici». Non è solo una questione di soldi. Certo, se il governo Berlusconi nel 2010 aveva destinato alla Protezione Civile 2 miliardi e oggi ci sono a disposizione solo 380 milioni, qualcosa dovrà pur dire.
Se all’Aquila furono assegnate 5.653 abitazioni in cento giorni e fu organizzato un sistema di 700 pulmini che ogni mattina passavano a prendere gli scolari offrendo loro cappuccino e brioches, qualcosa dovrà pure significare. Ma che tintinnino meno quattrini, ha detto ancora il rude Guido, è solo conseguenza di un problema più grave e cioè la decisione politica di colpire la «credibilità» della Protezione civile. Qui il lettore potrà decidere a quale versione della vicenda dare credito: se a quella delle “cricche” che sghignazzano al telefono fregandosi le mani perché alle disgrazie seguono gli affari, o a quella dello stesso Bertolaso che a Minoli ha spiegato che «alcuni direttori di testate importantissime vennero a dirmi: “Caro Bertolaso, l’abbiamo dovuta massacrare perché lei era l’unico in grado di prendere il posto di Silvio Berlusconi in politica”. Questo mi è stato detto chiaro e tondo, ovviamente in camera caritatis».
Abuso d’ufficio dietro l’angolo
Tuttavia, anche volendo trovare una verità mediana tra le opposte interpretazioni, resta l’impressione che questa volta la catena di comando ha funzionato con qualche singhiozzo e con qualche intoppo in più di cui si deve essere accorto lo stesso presidente del Consiglio Paolo Gentiloni che ha cercato di rimediare inviando il viceministro Filippo Bubbico al centro di comando di Penne per rimettere ordine nel piccolo-grande caos. Trovare il filo d’Arianna per uscire dal dedalo non è facile: da un lato il codice degli appalti da rispettare, dall’altro il timore che domani una qualche procura possa contestare reati d’abuso d’ufficio.
Enzo Boschi, sismologo di fama, uomo che ha il dono della schiettezza, la vede così: «Serve un capo assoluto – dice a Tempi –, un monarca, persino antipatico, se è necessario». Insomma, un Bertolaso. «All’Aquila e ad Haiti ha compiuto un lavoro straordinario riportando a casa con interventi rapidi e mirati non solo gli italiani, ma tutti gli europei». Boschi, per ventotto anni a capo dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), ha a che fare coi terremoti da una vita. Li studia, cerca di classificare dove possano esplodere, richiama perennemente a non scordarsi che viviamo su suolo sismico. Tanta prossimità e lunga esperienza gli hanno insegnato che bastano dieci minuti per salvare o non salvare una vita umana. Di qui la certezza che «in situazioni di emergenza – dice a Tempi – il capo della Protezione civile deve poter disporre di poteri “militari”. Una frazione di secondo fa la differenza. Se oggi, e non domani, deve far arrivare gli spazzaneve dalla Groenlandia, deve poterlo fare subito. L’emergenza richiede velocità, capacità di comando, esecuzione immediata».
Devo chiudere le scuole?
Per Bertolaso è nella diarchia Curcio-Errani il busillis. E la soluzione è semplice: «Si riparte da Fabrizio Curcio, da un dipartimento nazionale riorganizzato con il pieno supporto della politica e del governo e con il presidente del Consiglio che deve fare le ordinanze e provvedimenti per dare poi, al dipartimento, la possibilità di essere efficace come in passato». Parole simili a quelle di Agostino Miozzo, suo braccio destro tra il 2002 e il 2010: «La gestione dell’emergenza non è un tavolo di discussione politica. La gestione dell’emergenza non può essere configurata come una democrazia assembleare: non c’è democrazia nel governo delle emergenze». «Il commissario per la ricostruzione Vasco Errani, ottima persona – attacca Castelli –, è solo un’altra vittima dell’ansia da prestazione di Matteo Renzi e del suo desiderio di storytelling da eroe Marvel. Ma così, inevitabilmente, ha reso più leggera la figura di Curcio, a danno di tutti».
Ora pare che il governo stia cercando di metterci una pezza. Gentiloni ha detto che «dobbiamo essere più veloci. E per esserlo dobbiamo dare poteri più efficaci e straordinari». È un primo passo, si spera utile, anche se ancora circolano voci di ulteriori fasi di controllo, del coinvolgimento della Santa Anac del beato Cantone e di timbri, scartoffie, protocolli che lasciano immobili ed esitanti uomini e situazioni che avrebbero bisogno di non mordere il freno. «Dopo l’allarme sul rischio Vajont per la diga di Campotosto – racconta Castelli – il sindaco di Leonessa ha chiuso le scuole sine die. Io ho dato disposizione di tenerle aperte perché sono convinto, e l’ho dimostrato anche personalmente accompagnando mio figlio in quella da lui frequentata, che sono sicure. Ho fatto fare i controlli che lo Stato mi chiede: dal 24 agosto ad oggi la mia amministrazione ha speso due milioni di euro per le verifiche dei tecnici Aedes e i lavori manutentivi necessari a rassicurarci sul coefficiente di resistenza e di staticità delle scuole ascolane. Ma qui nasce il problema: lo Stato mi chiede di presentare per gli edifici pubblici di rilevanza strategica il cosiddetto indice di vulnerabilità sismica. Quello non ce l’ho, costa un milione di euro. Cosa devo fare? Chiudere le scuole finché non trovo i soldi, quegli stessi soldi che lo Stato mi ha sottratto con la spending review?».
Il Vietnam delle verifiche
Qui sta l’inghippo e, anche se il primo cittadino non lo dice, è chiaro che nel paese delle scie chimiche e dei processi agli scienziati, basta il ghiribizzo di un magistrato per portare alla sbarra qualcuno che non ha fatto tutte le verifiche del caso. La trasparenza può essere un bel cappio al collo invisibile. Così accade che ad Arquata del Tronto le casette siano arrivate, la Regione abbia individuato le sette zone dove dislocarle, ma di queste solo una sia stata già approvata. Così capita per le macerie che, in attesa dei pareri di congruità dell’Arpa, non essendo ancora stato individuato un sito dove deporle, sono portate a Roma.
La zona colpita dal terremoto è crocevia di quattro Regioni e questo complica ancor più le cose. «Gli uffici regionali sono in mano alla burocrazia», lamenta Castelli, inconsapevolmente confermando quanto detto sempre da Bertolaso: «Gli enti locali vanno messi da parte. Le Regioni non devono avere competenze nell’ambito della gestione delle emergenze». Nella zona del cratere è tutto fermo e non solo a causa della paura di nuove scosse. «La questione – aggiunge ancora Castelli – è che lo Stato impone obblighi che poi non permette di soddisfare». Una tortura in un labirinto. «Stiamo aspettando Godot. È chiaro che nessuno ha la bacchetta magica, ma è troppo chiedere alla burocrazia di non mettere il piombo fuso sulle ali di chi cerca di svolazzare? Come possiamo pensare di ricostruire se siamo ancora impantanati nel Vietnam delle verifiche?».
Sembrerà paradossale, ma oggi Castelli non chiede soldi allo Stato, ma «la possibilità di avvalermi di trenta giovani geometri per mettere a posto tutte quelle carte che le procedure mi impongono di produrre. Dopo la tragica valanga sul Rigopiano ce ne è un’altra cui noi sindaci dobbiamo far fronte quotidianamente: quella delle carte bollate». È una slavina anche quella, forse. Ma, tranquilli, solo “forse”.
Foto Ansa
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