La sinistra riparte dal Loggione della Scala
Nel dicembre 2010, la penna geniale di Guido Ceronetti celebrò un ampio, rimarchevole de profundis delle esibizioni mondano-carnascialesche della Scala di Milano, tempio della lirica e di certo spicciolo esibizionismo.
Scrisse il funambolico intellettuale, «i motivi sono di vanità pura, esibizione di scollature e pettinature, significare presenza. E per questo i violini si agitano, le grandi bacchette sollevano ondate… Ma sulle facce la noia stampa, in un crescendo di afflizioni, le sue impronte d’irresistibile sbadiglio».
Non è snobismo, ma presa d’atto dell’esaurimento della vocazione artistica di un dato evento, di un certo luogo, trasformato in terme dell’abbronzatura mondana, di una voracità da photo-opportunity per starlette innalzate sul trono dell’impegno civico.
E quel grido belluino, che ha terremotato le coscienze illanguidite di una sinistra sempre in cerca di nuovi eroi, cavato dal ventre luminescente del loggione della Scala, quel «no al fascismo» seguito poi dal «viva l’Italia antifascista», si è tramutato nella slavina di un dibattito politico che, privo di contenuti, modelli e personalità, si rende hashtag, con tanto di manifestino del Pd.
I partigiani del trotto
Identificarsi, cinguettano parlamentari, cittadini socialmente impegnati, sonnacchiosi resistenti catodici e sabotatori democratici del fascismo in assenza di fascismo, tutti a spiattellarci i loro dati personali, in un postal market del voyeurismo da ingegneria sociale nell’epoca della sua replicabilità social.
Lo fanno perché al Sophie Scholl ippico, giornalista melomane che ha pensato bene, per motivi suoi, nemmeno fosse allo stadio o all’ippodromo, di lanciarsi nel verso di rivendicazione di un qualcosa che nessuno ha mai messo in discussione, la Digos ha chiesto i documenti, per identificarlo.
Sia mai, lui si è spaventato davanti l’Ovra teatrale che ha persino preso i suoi dati, come è facoltà della polizia in ogni luogo e in ogni dunque, come prevedono le leggi fascistissime di pubblica sicurezza che nessuna Corte e nessuna sinistra di lotta e di governo hanno mai cancellato a fascismo caduto.
Avessi, personalmente, ricevuto un euro per tutte le volte che sono stato fermato e identificato nel corso degli anni, avrei accumulato un discreto gruzzoletto per “ballarmi la fresca” e sarei pure “andato in gaina”, come sostengono i veri resistenti contro il mondo moderno, Filippo Champagne e Nevio lo Stirato, creature mediatiche rese popolari dall’obliquo genio di Giuseppe Cruciani.
E li evoco perché condividono con il partigiano del trotto l’amore per il cavallo, bestia nobile e libera su cui il disobbediente ha scritto molto, anche su riviste online come Equos, con la U a ferro di cavallo.
Ed è anche innegabile che per calarsi nella trincea del Loggione si debba sborsare una certa cifra, che indica sempre un chiaro pedigree abbiente, annoiato, assai lontano da possibilità proletarie e che nel guizzo del momento, nell’estro inventivo celato dietro la mascherata da ribellismo da biennio rosso, spezza la consuetudine grigina di una vita da cui si è avuto un po’ tutto.
Comprese parentele di risonante milieu, non proprio borghese, ma più alto, molto più alto, quasi da vertigine e da erre moscia, incistate assai bene nel mondo dorato di una certa ippica fatta industria.
I fascisti alla Scala
Siamo qui in una insondabile zona di tenebra, panorama metastorico dove Calamandrei si concede la Tris a Agnano con i protagonisti di Febbre da cavallo o Arturo Toscanini si lancia nell’unico vero grido di rivolta possibile: «Vai col tango, Pomà! Vai con l’Italia antifascista!».
Via crucis del momento di notorietà, mi si nota di più se ululo dalle retrovie contro un governo dipinto come reazionario, nemmeno fosse la Giunta di Videla, che tanto non mi farà niente di niente, oppure se me ne vado a bisbocciare in tuba e marsina come decadente bohemienne?
Ha optato per la gloria progressista della prima scelta.
E però, nella migliore oleografia di una sinistra che ama tanto dipingersi alle prese con una dittatura in assenza di dittatura, perché quando poi la dittatura arriva in genere corrono a mettere su la camicia nera al posto del frac, s’era già avanzata la protesta rumorosa contro il fascismo al governo, incarnato nelle persone di presidente del Senato, Ignazio La Russa, e ministri, tra cui Matteo Salvini.
Aveva anticipato tutti la Cgil delle maestranze teatrali che aveva declamato «i fascisti non sono graditi alla Scala».
E poi lui, con colpo di teatro, appunto, con quella chiamata all’impegno civico, mentre sotto, tra le prime file, al fronte, si era ancora alle prese con la geopolitica cerimoniale delle sedute e su chi incastrare dove, in un tetris istituzionale degno di miglior causa.
E così, quando parlamentari e intellettuali e cittadini eticamente impegnati, tutti dalla parte giusta della storia che gira e rigira non è mai quella del torto, hanno appreso che il resistente vocale era stato persino identificato, pur in assenza di qualunque remoto rischio di conseguenze legali, hanno gridato al regime, alla deriva autoritaria, e si sono lanciati sui social nel rivendicare solidarietà e a snocciolare i loro dati di cui, oggettivamente, importa poco.
Però, signora mia, fa tanto chic.
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