La sanità dopo il Covid: l’inutilità di certe polemiche, la necessità di una riforma

Di Giancarlo Cesana
15 Dicembre 2020
I dati e il confronto con l'estero certificano che c'è un problema nel sistema delle cure italiano. E non è l'eccessiva presenza dei privati. Numeri, punti fermi, idee per il futuro
Esposizione di camici e abbigliamento per medici e infermieri in una vetrina di negozio

Articolo tratto dal numero di dicembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Riformare la sanità? «Vaste programme», avrebbe potuto dire De Gaulle, come quando durante un comizio rispose a chi gli chiedeva di eliminare i cretini. In effetti, riformare la sanità non è facile. In settanta anni, dalla fine della Seconda Guerra mondiale, la riforma sostanziale della sanità in Italia è stata una, con la legge 833 del 1978, che, imitando quanto aveva fatto la Gran Bretagna trent’anni prima, ha introdotto la copertura universale, cioè ha reso lo Stato garante verso tutti i cittadini di tutta l’assistenza sanitaria necessaria. Prima c’erano le mutue, che con i contributi dei lavoratori coprivano le spese mediche loro e delle loro famiglie. Chi non lavorava, pur essendo cittadino, doveva pagarsi farmaci e ospedali oppure ricorrere alla carità (che c’è sempre stata).

Con la riforma del ’78 lo Stato ha utilizzato una parte della fiscalità generale e non solo, che ha redistribuito alle Regioni cui è stato affidato il governo e la responsabilità dell’erogazione delle prestazioni sanitarie. Successivamente, nel 1992, 1993, 1999 e 2012, sono state fatte altre riforme, ma di aggiustamento e razionalizzazione, tese a contenere i costi esorbitanti e insopportabili del voler dare gratuitamente tutto a tutti, che peraltro non è mai successo (basti pensare alle spese odontoiatriche). Così le Usl (Unità sanitarie locali) sono state trasformate in Asl, cioè in aziende con un budget da rispettare, derivante dalla attribuzione di finanziamenti per quota capitaria (per caput, per ogni residente, lavoratore o meno). Sono state introdotte nuove regole: è stato stilato un elenco delle prestazioni garantite, o livelli essenziali di assistenza, coperti in toto o in parte dallo Stato; i cittadini sono stati chiamati a partecipare alla spesa di dette prestazioni, con il pagamento di una quota percentuale, o ticket; gli ospedali non sono stati più finanziati per giornata di degenza, ma per Drg (Diagnostic Related Group), ovvero per malattia diagnosticata e trattata, cui è stato attribuito un valore fisso a livello nazionale, mentre sono state stabilite tariffe per attività specialistica ambulatoriale; i medici hanno potuto continuare ad esercitare attività privata, ma all’interno dell’ospedale, intra moenia, o concordata con esso (magari nel proprio ambulatorio); causa la crisi economica del 2009 sono stati ridotti i finanziamenti complessivi, con diminuzione del personale e dei posti letto; i politici sono stati esclusi dalla gestione della sanità affidata a “tecnici” (di nomina politica).

L’elenco riportato delle riforme post-833 è sommario, come lo è di fatto la loro realizzazione: le parentesi sulla attività intra moenia nel proprio studio o la sostituzione dei politici con tecnici non sono casuali. È tuttavia utile per comprendere come, dopo una riforma improntata a un ideale assoluto di eguaglianza nella protezione della salute, l’impotenza economica e amministrativa abbia costretto a un ripensamento con restrizione delle risorse, che è la ragione delle lamentele di oggi: “Mancano letti, medici, infermieri, presidi e attrezzature”. Non è stato fatto altro di sostanziale.

Chi spreca e chi ruba

L’unica novità è stata introdotta dalla Regione Lombardia con la legge 31 del 1997. Questa, insieme a interventi anch’essi di aggiustamento – distinzione tra Asl e ospedali con le prime nel ruolo di compratori e i secondi di produttori delle prestazioni, aggregazione di Asl e ospedali in modo da favorire un’economia di scala (se si comprano flebo per più ospedali si risparmia, così come si diventa più efficienti se si unificano le unità operative ad aumentare la casistica e la qualificazione) – ha accreditato una serie di ospedali privati, rendendoli pubblici, cioè trattandoli e finanziandoli come gli ospedali di sua proprietà. Sono nati così dei grandi centri medici, famosi in Italia e in Europa, come il San Raffaele, San Donato, l’Istituto europeo di oncologia e diversi altri, minori per dimensioni e fama. Questi centri, con la loro maggiore efficienza, hanno introdotto una concorrenza controllata che ha spronato il funzionamento non solo degli ospedali lombardi, ma anche dei maggiori ospedali italiani.

L’efficienza riguarda la rapidità e l’economicità con cui si arriva a produrre lo stesso beneficio, mentre l’efficacia riguarda la capacità di produrre il beneficio di cui si ha necessità. Dal punto di vista dell’efficienza i nosocomi privati accreditati si sono dimostrati indubbiamente più prestanti di quelli pubblici, sia per l’economia sia per l’organizzazione, mentre la loro efficacia è in discussione per la tendenza a ricoverare i casi meno gravi e più redditizi per Drg. Il confronto tra privato e pubblico rivela che se il primo tende a “rubare”, il secondo “spreca” e che l’unica soluzione è che il governo della sanità abbia effettive capacità di controllo sul pubblico e sul privato, cosa ancora al di là da venire.

Come ha detto Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001 e uomo non certo di destra, già citato in questa rubrica due anni fa:

«Gli errori umani esistono tanto nel settore privato, quanto in quello pubblico, con una differenza: gli errori del settore pubblico sono pagati da tutti, mentre quelli del settore privato solo da alcuni (azionisti, dipendenti, amministratori)… il settore privato ha una maggiore motivazione che non il pubblico a evitare gli errori. (…) Le posizioni dottrinali, le quali assicurano che gli interventi governativi favoriscono, in ogni occasione e circostanza, un minor benessere, che i governi sono intrinsecamente inefficienti e che la ridistribuzione delle risorse non produce altro che gruppi di pressione a proprio vantaggio, sono tanto false quanto inutili. I governi debbono intervenire quando il mercato non è capace di risolvere i bisogni sociali… Allo stesso modo le posizioni dottrinali della sinistra, che esigono un più esteso intervento governativo e che idealizzano il governo concedendogli caratteristiche antropomorfiche, come si trattasse di un unico individuo (un despota illuminato) i cui errori sono sempre causati da ragioni al di fuori di lui (da altri individui per esempio), senza riconoscere i suoi limiti, sono altrettanto inutili».

Inutili e interessate, pertanto, sono le polemiche, che infuriano, sull’eccessiva privatizzazione della sanità lombarda, non più privata di quella nazionale, e sulla necessità di riportare tutto sotto il controllo della Stato centrale. Quest’ultimo raramente si è dimostrato meglio di Regioni e istituzioni private. Anzi, dal punto di vista delle pubblica amministrazione, le iniziative sanitarie private accreditate in Lombardia hanno concorso a diminuire le perdite e stabilizzare un bilancio, che gli ospedali pubblici cronicamente in rosso mettevano in pericolo. Inoltre, in caso di emergenza, come il Covid, hanno fatto la loro parte e si sono dimostrate un contributo essenziale.

Dati a confronto

Arriviamo così alla domanda finale. La pandemia ha messo in evidenza la necessità una riforma decisa della nostra sanità e in che senso? In tutti i paesi, colpiti come noi, la sanità è andata in crisi e le polemiche sono divampate. Vale la pena comunque di fare un confronto.

Lasciamo stare la diffusione dei contagi, che è dipendente dal numero dei tamponi, diverso da paese a paese per ragioni economiche e politiche. Guardiamo al dato della mortalità, che è il parametro fondamentale per la valutazione della diffusione di una malattia, della sua gravità e dell’efficacia delle cure. Secondo i dati pubblicati il 27 novembre dal centro di riferimento mondiale della Johns Hopkins University, i morti per Covid in Italia sono stati pressappoco 53 mila contro 264 mila degli Stati Uniti che hanno una popolazione 5,5 volte superiore, 57 mila del Regno Unito che ha una popolazione di un decimo superiore, 51 mila della Francia che pure ha una popolazione come il Regno Unito, 44 mila della Spagna con una popolazione di 15 milioni inferiore, e 15 mila della Germania che ha una popolazione di 23 milioni superiore. Proporzionalmente i dati non sono favorevoli al buon funzionamento della sanità italiana e fanno pensare soprattutto quando si prenda in considerazione il confronto con i tedeschi.

Che cosa hanno questi che non abbiamo noi? Sono più resistenti alla infezione, classificano diversamente le morti per Covid, oppure curano meglio? La seconda ipotesi è da prendere in seria considerazione e anche la terza. La Germania ha, a parità di potere di acquisto, una spesa sanitaria pro capite di oltre 2.000 euro superiore alla nostra, un’organizzazione sanitaria territoriale in grado di svolgere funzioni diagnostiche e di pronto soccorso oltre che terapeutiche, una disponibilità di 34 letti di terapia intensiva per 100 mila abitanti contro gli 8,5 nostri. Non si tratta di differenze da poco, ma di indicatori solidi di una direzione riformatrice che si potrebbe prendere.

Entrare nel dettaglio di un processo di riforma eccede gli scopi e le possibilità di questo articolo, ma alcuni criteri vanno sottolineati. La nostra sanità è sottofinanziata non solo rispetto alla Germania, ma anche rispetto alla media europea – 2.500 euro pro capite contro 2.900 circa – e ciò a causa del nostro impoverimento negli ultimi anni. Siccome soldi non ce ne sono, decidere se ricorrere al Mes è fondamentale.

Cronici e acuti

L’individuazione e il miglioramento delle strategie di cambiamento della sanità debbono essere un processo di continuo adattamento, piuttosto che un progresso lineare verso una perfezione astratta. Forzature riformistiche, per quanto non sostanziali, come quelle della legge lombarda 23 del 2015, finiscono per essere solo confusive. Inoltre la situazione è improvvisamente cambiata: l’invecchiamento della popolazione aveva abituato a una attenzione marcata verso i cronici; la pandemia ha fatto riemergere con drammaticità la richiesta massiccia di interventi acuti, cui la nostra sanità, e non solo la nostra, non è preparata. Sia per i cronici che per gli acuti abbiamo bisogno di infermieri, che sono il personale veramente carente nella nostra sanità – 5,8 per mille abitanti, la metà di quelli nei paesi con cui ci confrontiamo – mentre medici ne abbiamo di più, 4 per mille abitanti contro una media europea di 3,6.

Un sistema di copertura sanitaria universale non è semplicemente una questione tecnica, ma è espressione della percezione che un paese ha della solidarietà sociale. Sempre è richiesto un impegno culturale e politico, perché i cambiamenti nel sistema di finanziamento e organizzazione della sanità trovano di norma grandi resistenze dovute ai notevoli interessi in gioco, degli operatori, dei fornitori di prestazioni e dei pazienti. La sanità, come dicono anche i protagonisti, non è fatta di eroi, ma di persone normali, con non pochi pregi e non pochi difetti.

Foto Ansa

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