La piccola Indi e il cappio del best interest
Indi Gregory non è una seccatura. Indi Gregory, nata il 24 febbraio scorso, è una bambina. Figlia di Claire e Dean, tre sorelle, otto mesi di vita, è ricoverata al Queen’s Medical Center di Nottingham ed è affetta da una rara malattia mitocondriale. Piange, ride, muove le braccia, risponde agli stimoli, è una disabile con una prognosi infausta. In quanto disabile incurabile non può guarire, va mantenuta in vita, con quel sondino e il tubicino della ventilazione meccanica, e mantenerla costa.
Secondo i medici che se ne curano, secondo i giudici dell’Alta Corte, in particolare secondo il giudice Robert Peel, doveva morire ieri alle 15. “Morire” di asfissia, fame e sete, cioè uccisa, privata dei sostegni vitali contro il volere dei genitori, esattamente come è accaduto per Charlie Gard, Alfie Evans, Isaiah Haastrup, Archie Battersbee, Pippa Knight o come per il polacco RS (anche per lui Londra negò il trasferimento a Varsavia) e ST (la diciannovenne indegna perfino di essere ricordata per nome).
Indi, il Bambino Gesù, la cittadinanza italiana
Doveva morire ieri perché vivere fino alla morte naturale iscritta nella malattia di Indi non è per i giudici il “migliore interesse” di una vita “futile”, “inguaribile”. Ma sono successe due cose. La prima. Ancora una volta – così come per i bambini che l’hanno preceduta – l’ospedale di Roma Bambino Gesù ha accolto la richiesta di aiuto di Claire e Dean a cui gli altri ospedali, i giudici inglesi e la Cedu di Strasburgo hanno negato finora aiuto, ricorsi e appelli: «Scriviamo per confermare che siamo pronti ad accogliere e curare vostra figlia Indi Gregory, nata il 24 febbraio 2023, all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma». La seconda. Ancora una volta l’Alta Corte inglese ha deciso di bloccare il trasferimento («Non c’è nulla che suggerisca che la prognosi di Indi Gregory sarebbe modificata in modo positivo dal trattamento dell’ospedale italiano»), ha dichiarato il giudice Peel, e ancora una volta il governo italiano è intervenuto. Andando a convocare – per curiosa coincidenza, nel giorno in cui Cappato si autodenunciava per aver portato l’ennesima malata a morire in Svizzera – un Cdm straordinario a ridosso della sentenza di morte e, in pochi minuti, ai sensi dell’art. 9, comma 2, della legge 91 del 5 febbraio 1992, «in considerazione dell’eccezionale interesse per la comunità nazionale ad assicurare al minore ulteriori sviluppi terapeutici», conferendo alla piccola la cittadinanza italiana, sottoscritta dal presidente della Repubblica.
Il disprezzo di Crisanti (Pd) per le cure a una neonata
«Dicono che non ci siano molte speranze per la piccola Indi, ma fino alla fine farò quello che posso per difendere la sua vita. E per difendere il diritto della sua mamma e del suo papà a fare tutto quello che possono per lei», ha scritto Giorgia Meloni. Non si tratta di un bandierone politico, il governo italiano sta trattando da giorni con le autorità inglesi nella massima riservatezza assicurando la copertura dei costi per le cure nel nostro paese. Claire e Dean non sono due rimbambiti, lo sanno che Indi non guarirà, chiedono solo che sia curata con amore e cure palliative fino alla fine. Non asfissiata come una trota. Simone Pillon, legale della famiglia, seguita in patria dal Christian Concern (qui tutta la sua vicenda giudiziaria), è al lavoro per portarla a Roma, e oggi ha twittato: «Decisione per #IndiGregory domani alle 15 italiane. Continuiamo a lavorare per un accordo». Di impegno e speranza hanno parlato la ministra Eugenia Roccella e Maurizio Lupi. Solo Andrea Crisanti, senatore del Pd, è stato capace di snobbare la disponibilità dell’ospedale del Papa con queste parole:
«Il sistema sanitario inglese è all’avanguardia nel campo della genetica e dell’ingegneria genetica, portare in Italia la piccola Indi è una inutile crudeltà. A cosa servono le cure palliative? Penso che da parte del Governo ci sia stata solo una questione politica. Con quale scopo? Solo per avere pubblicità a buon mercato sulla pelle dei genitori della bambina».
Il letale paternalismo e l’opzione Tafida
Pubblicità, Crisanti? Qui nessuno è un senatore del Pd o vanta cattedre all’Imperial College. Sappiamo, come sanno benissimo Claire e Dean Gregory, e prima di loro Kate e Thomas Evans, e prima ancora Connie e Chris Gard e tutti i genitori dei bimbi soppressi dall’Nhs, che non esiste un diritto alla guarigione, ma esiste un dovere di cura. Che le cure devono essere proporzionate alla condizione del paziente – e che al netto di quello che pensa un senatore del Pd, a cure e paziente ci pensa il Bambino Gesù, non il governo Meloni. E sappiamo che tra medici, pazienti e familiari si deve instaurare un’alleanza, non un “letale paternalismo” (definizione dell’Anscombe Bioethics Centre nel caso di ST), secondo il quale cure o un trasferimento arrecherebbe maggiori rischi e danni alla piccola della morte certa e procurata in ospedale.
Una sola bambina ce l’ha fatta: non a guarire, a venire in Italia. Si chiama Tafida. Pur in condizioni molto diverse da Indi, anche Tafida, secondo i medici inglesi del Royal Hospital di Londra, sarebbe dovuta morire «nel suo miglior interesse», e anche nel caso di Tafida i giudici avevano negato qualunque trasferimento, ordinando lo spegnimento dei macchinari a cui era attaccata. Le cose andarono diversamente. L’intera comunità musulmana fece quadrato intorno ai genitori e nessuno si sognò di bollarli come dei “fanatici pro life” o dei masochisti che volevano tenere in vita a tutti i costi la figlia. La piccola venne accolta all’ospedale Gaslini di Genova e quasi un anno dopo fu dimessa e inserita in un programma di riabilitazione. Per il sistema sanitario inglese «all’avanguardia nel campo della genetica e dell’ingegneria genetica» non aveva speranze.
Curare Indi Gregory
Per l’Alta Corte inglese il trasferimento in Italia non è un tema. Non lo è nemmeno il trasferimento della piccola a casa dei Gregory, dove Claire e Dean avevano supplicato che la figlia potesse trascorrere assistita le ultime ore di vita. Vedremo domani che cosa succederà.
I genitori di Indi, il Bambino Gesù, il governo italiano non dicono che Indi guarirà, dicono che si può accompagnare il malato anche davanti a una prognosi negativa, che si può curare anche quando non si può guarire. Vale quando le cose si mettono bene, come nel caso di Tafida, e quando si mettono male. Indi Gregory non è una seccatura, è una bambina – oggi una bambina italiana – che ci costringe ancora una volta a rispondere a delle domande: da quando la terminologia usata per stabilire la “futilità” dei trattamenti sanitari viene riservata all’esistenza umana?
Da quando una vita “futile”, “improduttiva” è manifestamente diventata una sciagura da reprimere per uno Stato depositario del bene comune? Come è possibile, nell’era dei diritti e delle infinite possibilità, che una morte al prezzo della vita sia più accettabile e sostenibile della vita stessa? Ma soprattutto perché, di fronte a qualcuno che accetta di farsi carico di costi e cure di Indi, della zona grigia dell’esistenza, la risposta è sempre la rinuncia, la morte indotta, il lavarsene le mani – del paziente sì, ma anche di chi ha il desiderio di “cum patire” fino alla fine?
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