
«La nostra visione distorta della politica rischia di condannarci alla tirannide»

Nel desolante panorama culturale italiano, Raimondo Cubeddu è una di quelle rare voci da cui sempre si può imparare qualcosa. Già ordinario di Filosofia politica all’Università di Pisa, nonché senior fellow dell’Istituto Bruno Leoni, Cubeddu è un esperto di pensiero liberale, e segnatamente della Scuola austriaca, in particolare Carl Menger e Friedrich von Hayek ma non solo. Basti pensare anche ai suoi studi su Leo Strauss e su Bruno Leoni. L’editore Cantagalli, nella collana “Atene e Gerusalemme” che Cubeddu dirige con Sergio Belardinelli e con Adriano Fabris, ha recentemente pubblicato una sua raccolta di scritti bella fin dal titolo: La politica, il tempo e l’incertezza. Tutti gli interventi riflettono su quella che è la condizione umana, fatta di scarsità, ignoranza e fallibilità, da cui deriva una visione scettica circa le pretese della politica e del potere a essa associato.
Professor Cubeddu, secondo lei come è possibile che spesso gli individui manifestino la loro insofferenza per la politica e al contempo, quasi fossero dotati di una personalità doppia, chiedano e si aspettino sempre di più da essa?
Penso sia la conseguenza, non so quanto inintenzionale, del fatto che dall’avvento della modernità le scienze sociali hanno privilegiato il momento della distribuzione (etica o politica) di beni e di risorse rispetto a quello delle condizioni della sostenibilità nel tempo della capacità di una società di soddisfare bisogni in crescita e comunque imprevedibili. Come pure hanno trascurato il ruolo che il tempo svolge nelle vicende sociali, a partire da quella che definisco «l’aspettativa soggettiva di tempo». Ne è derivata una spasmodica attenzione per la politica, intesa sia come lo strumento privilegiato di tale processo ridistributivo, sia come produttrice di certezza circa la possibilità di mantenere nel tempo l’esistenza di una società volta principalmente a consentire l’immediato soddisfacimento dei bisogni. Ma, poiché ogni accelerazione dei processi sociali ha un costo proporzionale e imprevedibile, ne sono derivate forme di tirannide che puntualmente si rinnovano e si ripropongono.
Tra l’altro, come rimarca anche il sottotitolo di un suo precedente volume (L’ombra della tirannide. Il male endemico della politica in Hayek e Strauss, Rubbettino 2014), l’ombra permanente insita nella natura coercitiva della politica è quella di distruggere la libertà individuale: non proprio una prospettiva allettante…
Già, quando col dilagare dell’innovazione e della globalizzazione quel processo è entrato in crisi perché la possibilità di governarlo si è dimostrata chimerica, allora gli individui si sono sentiti delusi. Una delusione per tanti versi motivata che si è trasformata in disprezzo ma che non ha eliminato le aspettative sulla politica. Il risultato è che, paradossalmente, in un mondo sempre più incerto e quindi imprevedibile, i fallimenti della politica ne incrementano la domanda. E così si continua a pretendere da lei qualcosa che non è più in grado di fornire. O che fornisce solo parzialmente, ma a costi sempre più elevati e a scapito della libertà individuale. Non vorrei sembrare polemico e pateticamente nostalgico, ma penso che oggi godiamo di una libertà individuale molto minore di quella di cui godevamo fino a qualche decennio fa, quando c’era meno tecnologia e quindi meno controlli. Le esigenze di sicurezza e di giustizia sociale ci hanno indotti a pensare che l’unico strumento per perseguirle fosse la compressione dell’esercizio della libertà. Ma ne pagheremo le conseguenze con quelle “nuove tirannidi” di cui parlo in La politica, il tempo e l’incertezza.
Vi è un pensiero di Edmund Burke, contenuto in Lettera a un membro dell’Assemblea nazionale (1791), che può forse aiutare un proficuo incontro tra un certo liberalismo e un certo conservatorismo all’insegna della riscoperta del concetto di limite: gli individui, scrive pressappoco l’irlandese, possono essere liberi solo nella misura in cui sanno porre un freno ai propri appetiti, altrimenti forgiano le loro stesse catene. Un pensiero citato, tra gli altri, da Hayek, Wilhelm Röpke, Robert Nisbet, Gertrude Himmelfarb. Può essere questo uno dei perni di un conservatorismo liberale?
Il limite di un pur auspicabile “conservatorismo liberale” fondato sulla consapevolezza che non tutto ciò che è nuovo è parimenti buono e lo sarà anche nel futuro, è dato dal fatto che un’innovazione continua e illimitata, della quale non è ormai possibile individuare le fonti e le conseguenze, si sta distribuendo velocemente e in maniera imprevedibile. In un’inesausta generazione e modificazione delle aspettative individuali e sociali che produce inedite forme di diseguaglianza e che rende obsolete le nostre teorie sulla loro nascita e gestione. Ciò significa che non disponiamo più di una teoria in grado di consentirci di distinguere il “nuovo” dal “buono” – una “filosofia politica del limite” – e, di conseguenza, che le soluzioni proposte dai pensatori che lei elenca sono purtroppo inadeguate. Anche se non lo è il loro monito sulle conseguenze della rinuncia alla libertà per una sicurezza che la politica non può più garantire perché ormai dipendente dalla sua capacità di soddisfare aspettative individuali (che può solo costosamente reprimere, ma nella cui formazione la scuola e la Chiesa non svolgono più un ruolo) e dagli insondabili propositi dei produttori di innovazione.
Veniamo infine a una questione delicata: il rapporto tra cristianesimo e liberalismo. Alcuni studiosi come il compianto Massimo Baldini, Dario Antiseri e ora soprattutto Flavio Felice sono convinti che possano conciliarsi e, anzi, che il secondo sia figlio del primo: lo ha scritto del resto un autore caro ai tre studiosi sopracitati, Röpke. Lei che ne pensa? Non è il cristianesimo un baluardo contro forme di immanentismo religioso di matrice gnostica, come pensavano per esempio Eric Voegelin e Augusto Del Noce?
Condivido la sua affermazione, e tuttavia, come quegli amici ben sanno, pur ritenendo che una sinergia tra cristianesimo e liberalismo sia essenziale per l’Occidente, non ne sottovaluto le difficoltà. E non soltanto quelle contingenti dovute all’influenza di certi pensatori liberali o di certi pontefici. Il problema a mio avviso nasce dal fatto che, se si interpretano la modernità e il liberalismo come esiti di una secolarizzazione del cristianesimo e della Riforma, si è tentati di superarne la crisi riportandola a un allontanamento dai valori cristiani (oggi ugualmente in trasformazione e in crisi!). Io ritengo invece – ma non sono il solo e, non potendo ora approfondire il tema, mi permetto un rinvio ai miei Epicureismo e individualismo, Rubbettino 2024, e a “La modernità è figlia del cristianesimo?”, nel volume a cura di Marcello Pera Il suicidio dell’Occidente, Rubbettino 2024 – che l’età moderna abbia avuto perlomeno due fonti: quella cristiana e quella di derivazione epicurea che non sono facilmente componibili. Anche se dobbiamo cercare di renderle perlomeno compatibili.

Raimondo Cubeddu, La politica, il tempo e l’incertezza, Cantagalli 2025, 272 pagine, 19 euro.
Disclaimer: grazie al programma di affiliazione Amazon, Tempi ottiene una piccola percentuale dei ricavi da acquisti idonei effettuati su amazon.it attraverso i link pubblicati in questa pagina, senza alcun sovrapprezzo per i lettori.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!