La morte di dj Fabo e la fine di tutte le cose

Di Aldo Vitale
28 Febbraio 2017
La pretesa di una neutralità etica o giuridica di un atto come il suicidio assistito si propone come kantianamente contraria alla ragione stessa

«Nelle cose morali non vi è posto per la neutralità» ebbe a notare un illuminista, fervido seguace della ragione come legislatrice dell’agire umano, del calibro di Immanuel Kant in una delle sue più celebri opere dell’età matura, dal titolo, appunto, “La fine di tutte le cose”.

Per Kant e per la sua fiducia nelle capacità della ragione di scrutare i meandri del mondo e della realtà distinguendo il bene e il male, cioè perseguendo il primo ed evitando il secondo, sarebbe proprio espressione della fine di tutte le cose, anche della razionalità e ovviamente della stessa moralità, la mentalità odierna per cui non si può giudicare la realtà in quanto nulla di essa è così oggettivo da poter essere compreso con le forze della ragione.

L’idea che il bene e il male dipendano dalla sola volontà e percezione dell’individuo, come la maggior parte delle persone oggi ritiene, è proprio l’espressione massima di questa contemporanea sfiducia nei confronti della ragione che tanto avrebbe fatto inorridire Kant il quale appunto non riteneva razionalmente possibile una neutralità morale dell’esistenza in genere e degli atti umani in particolare.

Se davvero così fosse, del resto, se cioè avesse torto Kant e non la sensibilità odierna, non potrebbero essere giudicati con estremo disvalore umano, etico e giuridico alcuni dei più noti episodi, lungo la storia del progresso medico, che si sono determinati come gravi violazioni della dignità e della libertà dell’essere umano.

Tra i molteplici esempi possibili, sia sufficiente ricordare il caso della Willowbrook State School, centro per minori disabili mentali, in cui ben 700 bambini vennero appositamente infettati, negli anni ’60 del XX secolo, con l’epatite per studiarne sviluppi ed esiti, o anche il caso Tuskegee in cui centinaia di mezzadri di colore dell’Alabama, dal 1950 al 1972, furono segretamente infettati con la sifilide per condurre studi e sperimentazioni a loro insaputa.

In questa prospettiva si è ben delineata, specialmente dopo l’atroce esperienza del nazionalsocialismo e delle sue sperimentazioni antiumane, la necessità di riconoscere un criterio etico oggettivo, tale perché universale, cioè (cor)rispondente all’appello della umana ragione, come il consenso informato che, infatti, rappresenta il punto di saldatura tra la sofferenza e la comprensione della stessa da parte del paziente, tra i diritti del paziente e i doveri del medico, tra la scienza e la coscienza di quest’ultimo.
Si è così andato affermando il principio di autodeterminazione, termine oggi tanto di moda quanto (mi)sconosciuto nella sua effettiva dimensione teorica.

La recente morte del dj Fabo in Svizzera tramite suicidio assistito rappresenta proprio un banco di prova ideale per riflettere, seppur brevemente, su tale problema.

Secondo i più, infatti, la scelta del dj Fabo altro non è stata che l’espressione massima della libertà umana, cioè quella libertà che per natura spetta ad ogni essere umano il quale, padrone di se stesso, può autodeterminarsi a tal punto da disporre anche il momento e le modalità della propria morte, della propria fine.

Spesso, in quest’ottica, si vengono ad associare i termini di autodeterminazione e di dignità, ritenendo che l’una e l’altra possano essere o sovrapponibili, per cui la dignità si dissolverebbe nell’autodeterminazione intesa come libertà senza limiti, oppure che debbano essere intese in contrasto tra loro per cui l’autodeterminazione costituirebbe sempre una minaccia alla dignità intesa come sacralità della vita.

Ma è proprio così?

Non solo si può ritenere certamente di no, ma anche che le due predette interpretazioni siano soltanto gli errori di segno opposto che si commettono secondo una visione prettamente ideologica (la prima) tipica di certi ambienti laicisti della cultura contemporanea, o di una visione ciecamente fideistica (la seconda) tipica di certi ambienti cattolici dimentichi del ruolo fondamentale che la ragione svolge nel cristianesimo e nell’impianto morale dello stesso.

La questione, quindi, deve essere ri-allineata con i dettami della ragione per essere compresa nella sua autenticità; occorre riconoscere, cioè, che se è vero che non può esservi dignità senza autodeterminazione, come dimostrano i casi di abusi medici più sopra citati, è anche pur vero che non può esservi autodeterminazione, cioè espressione della libertà, in contrasto con la dignità.

Autodeterminazione e dignità devono cioè intendersi costantemente secondo un rapporto dialettico in cui nessuna delle due può prevalere sull’altra, riflettendo, del resto, il rapporto dialogico esistente tra libertà e verità.

L’autodeterminazione, dunque, non è e non può essere assoluta, cioè priva di limiti e confini, poiché, come ha ricordato Albert Camus, «la libertà senza limiti è il contrario della libertà», e non può manifestarsi quindi secondo modalità dell’agire che nella loro sostanza ultima costituiscono una violazione della dignità, come avviene nel caso del suicidio assistito in cui la persona del paziente è trattata, perfino dal paziente stesso, come un puro mezzo, cioè qualcosa di cui si ha la disponibilità.

La dignità, per altro verso, non può assumere le vesti immobilistiche di un fideismo cieco contrario alla ragione e alla stessa realtà, poiché non necessariamente il progresso tecnico – ovviamente qualora questo non sia svincolato dai dettami morali e giuridici – rappresenta di per se stesso una violazione della dignità umana, come, invece, probabilmente riteneva il noto compositore Manuel de Falla che da fervente cristiano preferì morire rifiutando ogni cura per accogliere in pieno quella che secondo lui era la volontà di Dio il quale gli aveva mandato la malattia di cui soffriva.

Soltanto una visione opposta alla ragione, a causa dell’ideologia o di una erronea interpretazione della fede cristiana, che contrappone o sovrappone autodeterminazione e dignità può condurre alla violazione effettiva tanto dell’una quanto dell’altra, oltre che, specialmente se si ricorre al suicidio assistito, del rapporto medico-paziente che viene alterato nella sua struttura eticamente relazionale a causa di una morte tecnicizzata e premeditata, vera e propria anticamera di una più generale cultura eutanasica.

La pretesa di una neutralità etica o giuridica di un atto come il suicidio assistito, dunque, si propone come kantianamente contraria alla ragione stessa, segnando con ciò la fine di tutte le cose, cioè non solo della morte naturale, ma anche della medicina e del suo profondo significato umano, del diritto e della sua strutturale fondazione relazionale, e, in definitiva, sia dell’autodeterminazione che della dignità.

In conclusione, sebbene molteplici e ulteriori considerazioni si dovrebbero ancora effettuare in proposito, si possono comunque accogliere le riflessioni in merito di Ivan Illich che così lucidamente ha riassunto il nuovo senso della morte diffuso nel mondo contemporaneo per cui la morte non ha più un senso: «La morte approvata dalla società è quella che avviene quando l’uomo è diventato inutile non solo come produttore, ma anche come consumatore. La società, agendo attraverso il sistema medico, decide quando e dopo quali offese e mutilazioni dovrà morire. La medicalizzazione della società ha posto fine all’epoca della morte naturale. La morte tecnica ha prevalso sul morire. La morte meccanica ha vinto e distrutto tutte le altre morti».

Foto Ansa

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