La mortalità dell’anno 2020 in Italia. Miti e urgenze
In Italia è osservabile, nell’ultimo ventennio, una vera e propria rivoluzione demografica che colloca il paese il paese in una fase regressiva della popolazione, colpita dal fuoco incrociato della progressiva riduzione del numero dei giovani e degli adulti – che si sposano meno, in un’età più avanzata e fanno meno figli – della diminuzione delle nascite e dell’aumento dei decessi. La contrazione del numero di persone colpisce, in verità, esclusivamente la componente italiana della popolazione che, a distanza di vent’anni (2002-2021), conta oltre 7 milioni di giovani-adulti (0-44 anni) in meno, mentre la popolazione straniera ha quadruplicato la sua consistenza e, superando i 5 milioni di cittadini, rappresenta l’8,5% del totale.
L’orribile anno 2020
L’anno 2020 sarà ricordato come annus horribilis per la natalità e, soprattutto, per la mortalità: con le sue 404mila nascite – 6,8 ogni mille residenti, circa 46 nati ogni mille donne di 20-45 anni – è l’anno con il maggior numero di culle lasciate vuote a partire dall’Unità d’Italia. Intanto, il valore assoluto degli oltre 746mila decessi – 12,6 ogni mille persone – rappresenta un inedito negli ultimi decenni, sul quale pesa in maniera evidente l’effetto Covid-19 e quello della sua peculiare gestione politico-sanitaria nel paese.
Un inverno lungo sessant’anni
E, tuttavia, ciò non porti a ignorare che la crisi della natalità affligge il paese da quasi sessant’anni: l’anno 1964, con un milione e trentamila nati, fu testimone dell’ultimo picco di nascite, mentre già il 1965 inaugurò il declino che – pur con qualche timido segnale di rallentamento – procedette in maniera sempre più spedita, soprattutto dal biennio 1974-1975 dopo il fallimento del referendum abrogativo della legge sul divorzio.
A partire dal 1993 in Italia il saldo naturale – cioè il numero delle nascite meno quello dei decessi – è in negativo, con valori sempre più gravi: questo vuol dire che è da quasi trent’anni che in Italia i decessi sono sempre stati superiori alle nascite, e in maniera sempre più cospicua, con le due sole eccezioni degli anni 2004 e 2006.
Inoltre, il contributo alla natalità prestato dalle donne straniere residenti in Italia, dopo il valore massimo raggiunto nel 2012, si sta riducendo e non compensa più il deficit di fecondità che caratterizza le donne italiane (-160mila italiani nati in vent’anni, dai 517mila dell’anno 2000 agli appena 357mila del 2019). E, intanto, dai dati provvisori Istat, emerge che i nati di febbraio 2021 sono meno di 30mila: si tratta di un valore talmente basso di nascite mensili che non si era mai verificato prima d’ora.
Mortalità in aumento
Sul versante della fine della vita, la mortalità è in aumento da prima dell’anno 2020, come si riscontra osservando l’andamento del tasso di mortalità generale e i decessi annuali dell’ultimo ventennio, che presentano valori massimi e minimi sempre più elevati, secondo un andamento higher-highs, higher-lows. Si tratta di una dinamica che è propria di una tendenza rialzista, caratterizzata dal fatto che quando a un valore di picco segue un minimo, entrambi si attestano – ogni volta che si ripresentano – su livelli più elevati rispetto a quelli precedenti. Il picco di mortalità del 2017, infatti, ha presentato valori superiori ai precedenti picchi del 2015 e del 2012 e, reciprocamente, gli anni 2018 e 2019 – che sono stati caratterizzati da una mortalità più mite – hanno comunque avuto decessi superiori a quelli degli anni 2013, 2014 e 2016. È, pertanto, presumibile che, dopo l’inedito eccesso di mortalità dell’anno passato, si assisterà – come è stato in seguito ai più recenti picchi di mortalità degli anni 2012, 2015 e 2017 – a un anno (o, forse, a un biennio) con un numero di decessi sensibilmente inferiore, anche in virtù del c.d. effetto harvesting, in attesa del prossimo rialzo che – se non si presenterà, questa volta, con i valori del 2020 – sarà verosimilmente superiore a quello del 2017.
Gli ottantenni
Nell’auspicarsi che la mortalità dei prossimi anni torni a valori più miti, la speranza di non assistere nuovamente, nel prossimo futuro, a un numero di decessi annuali superiore al valore medio degli anni precedenti si scontra con un dato di realtà, spesso ignorato o sottovalutato: l’Italia è un paese caratterizzato da una inedita numerosità delle persone di almeno 80 anni, che si sono più che raddoppiate nell’ultimo ventennio, arrivando a contare quasi 4 milioni e mezzo di persone, l’8,2% della popolazione residente.
Si tratta di valori molto elevati, che sono in crescita da un anno all’altro, complice il triplice picco di natalità – con oltre un milione di nati ogni anno – avvenuto negli anni immediatamente precedenti la Seconda Guerra mondiale: coloro che al 1° gennaio 2021 avevano 80, 81, 82 anni di età sono, infatti, i nati nel 1940, nel 1939 e nel 1938. Gli “almeno 80enni” sono, inoltre, preceduti da oltre due milioni e mezzo di 75-79enni e da quasi tre milioni e mezzo di 70-74enni, questi ultimi in buona parte figli del picco di natalità del triennio 1946-1948, avvenuto subito dopo l’ultimo periodo bellico.
Quozienti specifici di mortalità
Se da una parte è innegabile che, a livello storico, prima dell’anno 2020, l’età media al decesso e la speranza di vita alla nascita erano valori in aumento – come conseguenza di una tendenza alla diminuzione dell’intensità della mortalità nelle fasce più anziane della popolazione – d’altra parte, non si può ignorare che se nei prossimi anni si ripresenteranno, per le classi di età più anziane, gli stessi quozienti di mortalità specifici per età – cioè gli stessi rapporti tra il numero di decessi di persone con una determinata età rispetto alle persone della stessa età vive durante l’anno – che hanno caratterizzato gli anni con la mortalità più mite dell’ultimo decennio (cioè gli anni 2013, 2014, 2016, 2018 e 2019), i decessi all’interno delle classi più anziane della popolazione saranno destinati ad aumentare, dal momento che il tasso di mortalità specifico per quelle età dovrà applicarsi su una rispettiva popolazione sempre più numerosa.
850mila decessi all’anno
Riprova di ciò è il fatto che, ad esempio, il 2019, pur avendo presentato in quasi tutte le classi di età, anche in quelle più anziane, tassi di mortalità specifici inferiori a quelli del 2016 – cioè ha avuto, all’interno delle singole fasce di età, un minor numero di decessi rispetto al numero di persone della stessa età vive durante l’anno – ha visto oltre 17mila decessi in più rispetto a tre anni prima. L’affermazione che l’aumento della numerosità della popolazione con età più anziana determinerà, nei prossimi anni, un aumento del numero dei decessi complessivi trova riscontro, anche, nelle previsioni demografiche pubblicate dallo stesso Istituto nazionale di statistica (Istat), all’interno delle quali è contenuta la stima che entro quarant’anni i decessi cresceranno fino al valore di 850mila all’anno (secondo uno scenario mediano), potendosi spingere a superare, in un’ipotesi più pessimistica, anche gli 890mila annuali.
L’impatto del Covid-19
È anche in questo panorama demografico che si colloca l’impatto Covid-19 sulla mortalità dell’anno 2020.
In Italia, l’emergenza Coronavirus e la sua gestione sono state – stando ai dati pubblicati dal portale Our world in data (fondato e diretto da Max Roser, direttore dell’Oxford Martin Programme on Global Development presso l’Università di Oxford) o dal tedesco Statista.com – tali da garantire uno dei peggiori tassi di mortalità Covid-19 tra tutti i paesi del mondo, nonché il peggior tasso di mortalità, secondo solo al Belgio, tra tutti gli Stati dell’Europa occidentale e settentrionale (in confronto con Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Svezia e Svizzera), cumulando 1.227 decessi ogni milione di abitanti nell’anno 2020 (valore che ha superato i 2.100 decessi per milione a metà giugno 2021).
La “variante italiana”
L’esito della “variante italiana” della gestione dell’emergenza sanitaria è attestato – oltre che dai dati ufficiali dei decessi pubblicati con cadenza giornaliera dal Dipartimento della Protezione civile e riportati con macabra voluttà dai quotidiani nazionali e dalle agenzie di stampa – dall’entità del danno provocato alle attività economiche, inflitto dalle pesanti chiusure imposte dai governi, che hanno ottenuto come risultato, in un solo anno: una riduzione del Pil (in volume) dell’8,9% (Istat, 1° marzo 2021); un aumento superiore al 20% delle persone in povertà assoluta (Istat, 4 marzo 2021); un crollo dei salari del 7,5%, il peggiore tra i paesi dell’Unione Europea (Eurostat, 17 aprile 2021).
A ciò si aggiungano le gravose deroghe e limitazioni imposte, tra l’altro, all’esercizio della libertà personale, della libertà di circolazione, della libertà di riunione e della libertà di iniziativa economica, infine coronate dall’obbligo di vaccinazione per gli “esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario” introdotto dal decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44.
Il 2020 come il 2011 e il 2012
Nonostante la fallimentare gestione italiana dell’emergenza, della quale si sono accennati alcuni degli aspetti più caratteristici, in fase di rendiconto – cioè, analizzando i dati dei decessi attualmente disponibili coi rilasci dell’Istat per gli anni 2011-2020 e confrontandoli con la numerosità della popolazione residente in ogni singolo anno nelle diverse classe di età – si può riscontrare che la mortalità specifica per età che si è presentata nel 2020 all’interno delle fasce di età più anziane della popolazione – cioè quelle fisiologicamente caratterizzate dal più elevato numero di decessi, sia in termini assoluti sia rispetto ai vivi – ha sostanzialmente ricalcato quella che si era verificata negli anni 2011 e 2012, discostandosi in maniera degna di nota dai valori occorsi nove (e otto) anni prima per le persone a partire dagli 85 anni e, in modo più evidente, per coloro che hanno una età superiore ai 90 anni (v. tabella).
Classe di età | Decessi ogni 1.000 persone residenti (anno 2011) | Decessi ogni 1.000 persone residenti (anno 2012) | Decessi ogni 1.000 persone residenti (anno 2015) | Decessi ogni 1.000 persone residenti (anno 2017) | Decessi ogni 1.000 persone residenti (anno 2020) |
50-54 anni | 2,8 | 2,7 | 2,6 | 2,4 | 2,5 |
55-59 anni | 4,4 | 4,3 | 4,2 | 3,9 | 4,0 |
60-64 anni | 7,0 | 7,0 | 6,7 | 6,4 | 6,8 |
65-69 anni | 11,2 | 11,1 | 10,6 | 10,2 | 11,0 |
70-74 anni | 17,8 | 17,8 | 17,5 | 16,8 | 18,5 |
75-79 anni | 31,8 | 31,5 | 29,8 | 29,0 | 32,4 |
80-84 anni | 59,2 | 59,5 | 57,5 | 54,8 | 58,8 |
85-89 anni | 111,1 | 112,0 | 110,0 | 106,8 | 114,3 |
90-94 anni | 189,2 | 192,9 | 201,7 | 197,0 | 210,0 |
95-99 anni | 319,4 | 328,1 | 331,4 | 317,7 | 339,2 |
100+ anni | 481,7 | 483,6 | 528,1 | 499,5 | 499,4 |
Popolazione residente al 1° gennaio anni 2011-2021
Il tasso di mortalità specifico per età indica il numero di decessi avvenuti in un anno all’interno di ogni classe di età, ogni 1.000 persone della stessa età residenti durante l’anno
Livello storico e numerico
Quanto esposto non mira a rendere meno cupo il giudizio sulla mortalità che ha caratterizzato l’anno 2020 né intende “normalizzarlo”, per il semplice fatto che descrivere un fenomeno che si osserva non equivale a sminuirlo, ma può servire a collocarlo all’interno di un contesto di riferimento, lumeggiandone gli aspetti più caratteristici; la descrizione consente, inoltre, di acquisire maggiore consapevolezza di due aspetti importanti.
Il primo è che, a livello storico, si sono verificati, nel recente passato (2012, 2015 e 2017), anni caratterizzati da tassi di mortalità specifici per età più elevati rispetto a quelli degli anni precedenti, il cui innalzamento consuetamente colpisce in modo particolare le fasce più anziane della popolazione, determinando un aumento dei decessi al loro interno, il che va a incidere anche sul totale dei decessi. Il secondo aspetto è che una maggiore consistenza numerica della popolazione anziana sottoposta a più elevati (ma anche agli stessi) livelli di mortalità determina, gioco forza, un più alto numero di decessi.
Emergenza permanente?
Infine, non è fuori luogo porsi un interrogativo: se – come emerge dai dati attualmente disponibili alla luce dei rilasci dell’Istat – i tassi di mortalità specifici, così come i valori della “probabilità di morte” contenuti nelle tavole di mortalità dell’Istat, delle fasce più anziane della popolazione che si sono presentati durante l’anno 2020 ripresentano i valori che era normale riscontrare in Italia una decina di anni prima, e se nei primi mesi del 2021 i tassi di mortalità per le medesime fasce più anziane della popolazione (90+ anni, quelle per le quali Covid-19 è più letale) risultano, financo, meno intensi rispetto a quelli degli anni pre Covid-19, può ancora essere credibile e tollerabile il permanere di un tale stato di emergenza permanente?
Tra l’altro, l’analisi dell’eccesso di mortalità che si è presentato nell’anno 2020 non può non evocare ciò che, in meglio, avrebbe potuto verificarsi se solo le autorità politiche e sanitarie – anziché continuare a perseguire protocolli di tipo attendista (secondo il noto binomio “tachipirina e vigile attesa”), e puntare tutti gli sforzi esclusivamente sul versante vaccinale – avessero incentivato, o quantomeno non fortemente e ostinatamente osteggiato, la ricerca di e il ricorso a terapie domiciliari precoci per i malati Covid-19, proprio dalle quali sembrano emergere promettenti margini di successo in punto di riduzione della letalità.
L’emergenza demografica
In chiusura, se è vero che – anche in presenza di tassi di mortalità più o meno costanti – una componente anziana sempre più numerosa della popolazione determina fisiologicamente un aumento del numero dei decessi complessivi, ciò non può essere preso a pretesto per esonerare il Governo e le Autorità sanitarie competenti da mettere in atto tutte le misure necessarie per preparare il sistema, nel suo complesso, a fronteggiare questa inedita “emergenza demografica” che vede le persone anziane (75+ anni), cioè coloro che maggiormente necessitano di cura e di assistenza, essere aumentate di poco meno del 60% nell’arco di un ventennio – passando da 4,47 a oltre 7 milioni – fino a costituire il 12% della popolazione.
Il limite del Pnrr
Se l’implementazione non avverrà, l’effetto della pressione di una popolazione anziana, sempre più numerosa, su un sistema sanitario che non è in grado di adeguarsi alla inedita – ma non imprevista – realtà demografica presente nel paese farà diventare inevitabile il presentarsi di un numero di decessi sempre più elevato negli anni, ben superiore a quello stimabile in virtù dell’invecchiamento della popolazione. Sul punto, è doveroso sottolineare che la scelta di allocare – all’interno delle sei missioni individuate nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – proprio alla voce “Salute” la parte più esigua (15,6 miliardi di euro) di tutte le risorse a disposizione (191,5 miliardi) desta notevole stupore e non poco sconcerto, in considerazione della palese incongruità tra le esigenze e le carenze realmente esistenti e i mezzi intrapresi per farvi fronte, ancor più se si raffrontano i fondi stanziati per la sanità con gli oltre 40 miliardi destinati, invece, al “Digitale” e gli ulteriori 60 miliardi devoluti a “Rivoluzione verde e transizione ecologica”.
Anziani e fragili
Pertanto, se nel momento in cui il Governo decide l’entità delle spese da distribuirsi – anche nelle missioni e nei programmi del bilancio dello Stato – sceglie di non sostenere, con adeguate risorse economiche, un miglioramento e un irrobustimento globale delle capacità del sistema di farsi carico e di prendersi cura delle persone anziane e di quelle più fragili, sarà chiaro che una scelta in tema di sanità pubblica – anche se tramite una omissione – è già stata fatta, decretando che i beni del diritto alla salute, alla cura e, conseguentemente, alla vita, dei propri cittadini possono essere messi in secondo piano rispetto ad altri obiettivi e priorità, nonostante le pie dichiarazioni istituzionali che ostentano di avere primariamente a cuore il benessere delle persone.
Foto Ansa
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