
La guerra religiosa tra Ucraina e Russia

Le recenti vicende della Chiesa ortodossa in Ucraina hanno meravigliato molti osservatori europei per l’alto tasso di politicizzazione che una vicenda eminentemente ecclesiale ha assunto e per i modi assolutamente palesi con cui tale politicizzazione si è manifestata. Per un europeo occidentale del giorno d’oggi è molto difficile immaginare un capo di Stato che prende parte a un Sinodo di vescovi e che identifica il destino del paese che rappresenta politicamente con quello della sua Chiesa maggioritaria, e che identifica indipendenza politica e indipendenza religiosa.
«FINALMENTE UNA CHIESA SENZA PUTIN»
Eppure questo è ciò che è successo a Kiev il 15 dicembre scorso con il Sinodo per l’unificazione della Chiesa ucraina, non riconosciuto e duramente condannato dal Patriarcato di Mosca (dal quale fino ad allora dipendeva la principale Chiesa ortodossa operante in Ucraina), benedetto e approvato nelle sue conclusioni canoniche dal patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo. Ha detto il presidente Petro Poroshenko, presente dall’inizio alla fine dei lavori del Sinodo, rivolgendosi alla folla fuori dalla ex chiesa di Santa Sofia: «Questo giorno resterà nella storia come il sacro giorno della creazione della chiesa ortodossa locale autocefala di Ucraina, il giorno in cui finalmente riceviamo la nostra indipendenza dalla Russia. (…) L’Ucraina non berrà più veleno di Mosca dalla coppa di Mosca».
Mentre nel discorso tenuto al momento dell’apertura del Sinodo aveva affermato a proposito della nuova Chiesa che si stava per istituire: «È una Chiesa senza Putin, è una Chiesa senza il patriarca di Mosca Kirill, è una Chiesa che non prega per le autorità e le forze militari russe. Perché il potere russo e le forze russe uccidono gli ucraini». In realtà c’è poco da meravigliarsi, perché la storia delle Chiese ortodosse è sempre stata fortemente legata all’identità nazionale dei fedeli, e dunque alle vicende politiche connesse con tali identità. E non si tratta di dinamiche del passato destinate a svanire sotto l’influsso della modernizzazione: la fede religiosa è principalmente una questione identitaria nei paesi a maggioranza cristiano-ortodossa proprio oggi. Lo fanno pensare le statistiche sulle convinzioni e sulle pratiche religiose nei paesi ortodossi che sono state realizzate in questi ultimissimi anni. Da esse scopriamo che la fine dell’ateismo di Stato e della propaganda antireligiosa nei paesi ortodossi governati per decenni da regimi comunisti ha favorito la riapparizione delle identità religiose, ma non ha condotto a un incremento della pratica religiosa.
CRESCE L’ADESIONE ALLA FEDE
Nello studio “Religious Belief and National Belonging in Central and Eastern Europe” del maggio 2017 dell’autorevole Pew Research Institute troviamo che fra il 1991 e il 2015 la percentuale di adulti che si definiscono cristiani ortodossi è aumentata dal 37 al 71 per cento in Russia, dal 59 al 75 per cento in Bulgaria e dal 39 al 78 per cento in Ucraina. A questo impetuoso raddoppio dell’adesione alla fede religiosa in meno di un quarto di secolo non corrispondono però tassi significativi di pratica religiosa: vanno in chiesa almeno una volta alla settimana il 5 per cento dei bulgari, il 6 per cento dei russi, il 12 per cento degli ucraini. Il paese ortodosso europeo col più alto tasso di frequenza è la Romania, col 21 per cento.
Panorama completamente diverso fra i cattolici dei paesi dell’Europa centrale e orientale che hanno conosciuto il comunismo: frequentano la chiesa settimanalmente il 54 per cento dei cattolici di Bosnia, il 45 di quelli di Polonia, il 43 per cento dei greco-cattolici di Ucraina, ecc.; pregano quotidianamente il 15 per cento dei bulgari, il 17 per cento dei russi, il 29 per cento degli ucraini (che “battono” i cattolici polacchi, fermi al 27 per cento).
Alla domanda se la fede cristiano-ortodossa sia molto o abbastanza importante per essere veramente partecipi dell’identità nazionale, rispondono con percentuali massicce i paesi del Caucaso (Armenia 82 per cento, Georgia 81 per cento), ma anche in Russia e Ucraina questa è l’opinione della maggioranza rispettivamente col 57 e il 51 per cento.
RESTA BASSA LA PRATICA RELIGIOSA
Ancora più interessanti le conferme che arrivano dallo studio sulla religiosità dei giovani europei (“Europe’s Young Adults and Religion”) realizzato dalla St. Mary University di Londra, dal Centro Benedetto XVI per la religione e la società e dall’Istituto Cattolico di Parigi alla vigilia del Sinodo sui giovani. Da esso apprendiamo che il 49 per cento dei russi fra i 16 e i 29 anni non si identifica con nessuna religione: molto meno che fra i britannici (70 per cento) e i francesi (64 per cento), per non parlare di svedesi (75 per cento) e olandesi (72 per cento). Quando però si passa ad argomenti come la partecipazione alle liturgie e la preghiera personale le cose cambiano profondamente, e i risultati dei giovani russi non sono per niente diversi da quelli dei paesi europei secolarizzati: solo il 4 per cento dei giovani russi vanno in chiesa settimanalmente, cioè meno dei francesi (6 per cento) e dei britannici (7 per cento); a pregare per conto proprio almeno una volta alla settimana sono il 14 per cento dei giovani russi, lo stesso valore che si riscontra fra i giovani francesi, un po’ peggio dei britannici (18 per cento) e dei tedeschi (25 per cento).
«UNA RUSSIA FORTE È NECESSARIA»
Che la fede cristiana ortodossa presenti risvolti politici ineludibili si può sostenere anche sulla base di un dato piuttosto curioso che la ricerca del Pew Institute mette in evidenza: l’affermazione «una Russia forte è necessaria per controbilanciare l’influenza dell’Occidente» trova molti consensi anche in paesi appartenenti all’Unione Europea, ma molto di più in quelli ortodossi che in quelli cattolici o protestanti. Condividono infatti l’affermazione il 52 per cento dei rumeni, il 56 per cento dei bulgari e il 70 per cento dei greci; ma solo il 34 per cento di estoni, lituani e polacchi, il 40 per cento dei lettoni, il 44 per cento degli ungheresi, il 49 per cento dei cechi.
Infine può essere per molti una sorpresa scoprire quanto poco sia considerato, nella maggior parte dei paesi cristiano-ortodossi, il patriarca ecumenico di Costantinopoli, che con le sue recenti mosse nella vicenda ucraina ha provocato le ire del Patriarcato di Mosca che ha rotto la comunione con lui: ben prima della rottura dell’ottobre scorso, solo il 4 per cento dei serbi e dei russi lo considerava la più alta autorità ortodossa, il 7 per cento degli ucraini, l’8 per cento di bosniaci, bielorussi, bulgari e lettoni. Soltanto in Grecia Bartolomeo conquista la maggioranza col 56 per cento.
Foto Ansa
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