
La faticosa “pace disarmata e disarmante” dei cristiani d’Arabia

Il missionario al mio fianco che incontro per caso (per caso?) nel grande abbraccio della piazza ha una sorta di strano sussulto quando sente le prime parole di papa Leone XIV, “pace” e “ponti”: lui ne sa qualcosa. Non posso fare il suo nome, rischierebbe troppo; peggio ancora, con lui rischierebbero tanti amici che ha lì, nella terra dove il cristianesimo ha le radici più antiche ma dove non è possibile pregare Gesù, non è possibile amministrare un sacramento, non è possibile riunirsi nel nome di Cristo.
Lui, padre Filippo (è un nome di fantasia, ma quello vero lo renderebbe subito identificabile e questo non si può), viene dall’Est Europa, si è fatto prete sotto il comunismo, in un altro paese dove la fede era già motivo di sospetto, e professarla pubblicamente rendeva chiunque agli occhi del potere un potenziale nemico dello Stato, poco adatto a ricoprire cariche pubbliche, cittadino di serie B.
Le celebrazioni “segrete” di un prete in incognito
Ora Filippo è missionario nei paesi arabi, e il suo compito è proprio quello di viaggiare in Arabia Saudita. Qui la fede cristiana professata non è ammessa, nonostante ci siano più di un milione e duecentomila cattolici. La maggior parte di loro sono espatriati filippini con un permesso di lavoro temporaneo. Lo Stato saudita ha bisogno di loro per tanti lavori, non fa discriminazioni, tranne una: non possono professare la loro fede, portare articoli religiosi, oggetti che richiamino il loro credo. E libri di qualsiasi culto che non sia l’islam.
L’intera terra saudita è territorio sacro all’islam e c’è una polizia speciale che vigila, la Saudi Arabia Mutaween, in lingua araba la polizia religiosa. Essere scoperti a pregare o portare un Vangelo o un crocefisso comporta la perdita del posto di lavoro, se va bene, ovviamente annunciare il Vangelo in pubblico è un crimine grave. Se poi un musulmano si converte ad altra religione (e si calcola che vi siano almeno sessantamila musulmani convertiti segretamente al cristianesimo) il crimine si chiama apostasia, e può comportare la pena di morte se l’imputato non abiura pubblicamente. Non si ha notizia di esecuzioni di questo tipo nel recente passato, ma va detto che i cristiani sono molto attenti a non farsi scoprire.
«Funziona così», racconta a Tempi padre Filippo: «Nessuno sa che sono un sacerdote, o meglio non lo sanno le autorità. Ma i cristiani a Riyad mi conoscono e quando arrivo mi chiamano, mi vengono a prendere, mi portano in case private o in locali affittati per feste di matrimonio o compleanno. Non hai idea di quanti riescono a stiparsi in una casa privata, in un piccolo capannone. A Pasqua erano 23 mila. Io ero sommerso dalla folla, l’altare scompariva nella calca. Abbiamo pregato a bassa voce, tutti hanno ricevuto il sacramento. Quando mi invitano a cena mi apparto in un angolo, confesso, battezzo. Niente altro. Ma è un rischio grande, se scoperto come minimo io sarei processato ed espulso, ma loro perderebbero tutto. Casa e lavoro. È una profanazione, la terra della Arabia Saudita è tutta una grande moschea senza confini se non il deserto. E il cielo».
«Il primo ponte è la nostra preghiera sommessa»
La Chiesa cattolica ha diviso la terra di Arabia in due vicariati. A Nord c’è il vescovo Aldo Berardi, francese di origine italiana, religioso dell’Ordine Trinitario, l’antico ordine fondato nel 1198 per riscattare gli schiavi prigionieri dei pirati musulmani. Berardi è il pastore di oltre 2 milioni e settecentomila battezzati che vivono in Bahrein, Kuwait, Qatar e, appunto, Arabia Saudita. Qui la diocesi non può essere riconosciuta, non esiste nemmeno di fatto come struttura, ma esistono i cristiani «tempi vivi, cuori vivi di Cristo», mi dice il missionario che ho incontrato in mezzo alla folla in piazza San Pietro, e mi racconta della cattedrale di nostra Signora d’Arabia in Bahrein ad Awali, dove è venuto nel 2022 papa Francesco. Si commuove un poco ricordando le centinaia di migliaia di pellegrini arrivati da tutti i paesi arabi.
Il secondo vicariato comprende l’Arabia meridionale, gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman e lo Yemen, più di un milione di cattolici guidati dal vescovo Paolo Martinelli, padre cappuccino milanese.
Padre Filippo è un fiume in piena, un fiume di entusiasmo e carità. «I ponti sono una realtà viva che vedo crescere», mi dice. «Non puoi capire, tu vivi in città dove ci sono più chiese che fedeli, dove entrare a pregare, partecipare a una Messa, parlare con un sacerdote sono cose scontate: non ti rendi conto del grande dono, immenso dono che vivete. Noi vogliamo vivere in pace la nostra fede, quella “pace disarmata e disamante” che sta citando il Papa, e la nostra preghiera sommessa ma non tacita è il primo ponte. E non sai come e quanto mi ha commosso quando un cristiano mi ha raccontato che in ospedale a Riyad un gruppo di amici si era riunito attorno al letto di suo padre morente e a un certo punto hanno cominciato a pregare. È un gesto proibito, pericoloso, eppure i medici si sono fermati in silenzio, e quando il padre è morto si sono avvicinati con rispetto. È stato un grande segno quella morte. Un gesto che ha unito oltre ogni immaginazione».

Il fascino di una presenza
Due anni fa, nel 2023, i due vicariati hanno celebrato un giubileo dedicato alla memoria dei santi Areta e compagni, i primi martiri d’Arabia, sterminati nel 523 a Najran, località che oggi fa parte dell’Arabia Saudita e porta il nome di al-Ukhdūd. Monsignor Berardi ha detto ai media vaticani che «è stato un anno di grazia, gioia e riflessione: ha segnato il cammino dei cristiani in terra d’Arabia». Si è entusiasmato nel vedere migliaia di persone in pellegrinaggio attraversare ogni giorno le porte sante aperte nei due vicariati e riflettere profondamente sull’essenza dell’essere cristiani. «È vero, questa nostra zona è musulmana ma i martiri d’Arabia sono vissuti prima della fondazione dell’islam. Per ritrovare il senso storico di questa presenza cristiana molti pellegrini sono andati anche sul luogo dell’eccidio. Questa è una realtà “unica” in cui i migranti “ritrovano” nella Chiesa quella che un tempo era la loro terra di origine, costruiscono legami, ecco: ponti. Sono migranti o, per meglio dire, degli “expat”, poiché qui nessuno resta a lungo o prende la cittadinanza. Persone che ritornano o emigrano in altri paesi ma la Chiesa con i suoi sacramenti, la sua dottrina, i suoi riti universali e le sue celebrazioni li fa sentire a casa».
In questi giorni il presidente americano Trump ha viaggiato in tutta l’Arabia, ha stretto le mani dei potenti, ha tracciato “ponti” di ben altro genere, cementati da miliardi di petrodollari. «Nessuno si aspettava che si parlasse di libertà religiosa, quella ha bisogno di altri ponti costruito di ben altra materia», dice sorridendo il missionario. «E la Chiesa cresce “per attrazione”, nel fascino di una presenza, non nel potere del denaro o nella egemonia di una cultura».
La guerra non è lontana. «Noi, che siamo in mezzo», ha detto monsignor Berardi, «preghiamo con ancora più forza per la pace. La missione ha caratteristiche particolari nel Golfo in cui è vietato il proselitismo: convertirci sempre di più personalmente. Qui essere missionari significa esserlo per se stessi, sviluppando questa identità cattolica, la moralità cattolica, la spiritualità che ci fa essere riconosciuti. Tanti non possono venire in chiesa, per questo stiamo riflettendo su come raggiungerli attraverso strade diverse».
I viaggi di papa Francesco negli Emirati Arabi prima (2019) e poi in Bahrein (2022) hanno garantito «ancora maggiore riconoscimento e visibilità», una presenza fondata sui valori di «generosità e solidarietà», ha aggiunto il vescovo in una dichiarazione ad Asia News. «Si insiste molto sul tema della coesistenza, che significa rispetto dell’altro e va oltre la stessa tolleranza che non implica l’incontro. La coesistenza è un passo in più», spinge a ragionare su come «vivere insieme, il rispetto nella diversità».

Martinelli: «Le nostre chiese sempre piene di fedeli e di entusiasmo»
Migliore è la situazione nel vicariato della Arabia Meridionale. Abu Dhabi, nel 2019, è stato il luogo di incontro tra il Papa e i massimi rappresentanti delle religioni islamiche; qui il Pontefice e il grande imam di Al-Azhar, Ahmad al-Tayyib, hanno sottoscritto insieme il documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune.
Il vescovo Paolo Martinelli sottolinea parlando con Tempi la crescita della fede tra il popolo. Un popolo nuovo che nel nome di Cristo unisce tanti popoli. «La situazione negli Emirati Arabi è molto buona», ci dice. «Godiamo di libertà religiosa, sia per le celebrazioni eucaristiche che per la catechesi. Le nostre chiese sono sempre piene di fedeli che partecipano con grande entusiasmo. I nostri fedeli provengono da oltre cento nazioni, parlano lingue diverse e appartengono a riti diversi, ma abbiamo la stessa fede cristiana, abbiamo lo stesso battesimo, siamo membra dell’unico corpo di Cristo. Qui sperimentiamo l’unità della Chiesa in un modo particolarmente intenso. Quando papa Francesco ha celebrato la Messa qui ad Abu Dhabi nel febbraio del 2019 durante l’omelia ci ha detto che noi formiamo una “polifonia della fede” che dà gloria a Dio. Anche in Oman è garantita la libertà religiosa. Il popolo omanita è mite e ospitale. I nostri fedeli si radunano per la Santa Messa e per la catechesi regolarmente. Il rapporto con le autorità locali è molto buono. Diversa è la situazione nello Yemen dopo 10 anni di guerra civile. Nonostante le gravi difficoltà che hanno costretto molti cristiani a lasciare il paese, nel Nord ci sono due comunità di suore di madre Teresa di Calcutta, le Missionarie della carità, che fanno uno straordinario lavoro di accoglienza di malati e di anziani».
Il dialogo possibile
Diverso, chiediamo, è quanto succede in alcune realtà del vicariato dell’Arabia settentrionale, dove sussistono forti limitazioni, per esempio sulle celebrazioni. Perché questa differenza? «Ogni paese nel Golfo ha una propria storia e tradizione», risponde monsignor Martinelli. «Gli Emirati Arabi Uniti, fin dalla loro fondazione, sono stati molto aperti a persone di culture e religioni diverse. In questo paese quasi il 90 per cento della popolazione è migrante. Si contano persone di oltre 200 nazioni diverse. È un po’ nel Dna di questo paese, nato nel 1971, la coesistenza tra persone di fedi diverse e culture diverse. Non a caso papa Francesco è venuto qui per firmare il documento sulla Human Fraternity insieme al grande imam di Al-Azhar. Qui è nata la Abrahamic Family House, un unico centro in cui sono presenti una moschea, una chiesa cattolica dedicata a san Francesco d’Assisi e una sinagoga: una grande esperienza di dialogo e di condivisione nel profondo rispetto delle differenze religiose».
Penso a padre Filippo, che sta ripartendo per quella terra dove in mezzo al deserto fioriscono inaspettati germogli che lui è chiamato a curare, uno per uno: «La vita dell’uomo singolo, dimenticato, ignoto», scriveva Karl Popper, «le sue pene, le sue gioie, la sua sofferenza e la sua morte, questo è il contenuto dell’esperienza umana attraverso i secoli». Parole che riecheggiano in quelle del missionario: «Nel cristianesimo conta ciò che pochi pescatori hanno dato al mondo, non le imprese dei conquistatori romani».
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