«I cristiani in Arabia sono migranti, ma eredi dei martiri»
«Siamo una chiesa di migranti, è vero, ma non possiamo dimenticarci di avere radici profonde». Monsignor Paolo Martinelli è vicario apostolico dell’Arabia meridionale dal 2022 e si prende cura di un milione di cattolici che vivono tra Emirati arabi uniti, Oman e Yemen. In tutti e tre i paesi della Penisola arabica la conversione dall’islam è vietata e i cristiani presenti sono tutti immigrati, soprattutto dai paesi asiatici, per motivo di lavoro.
Questo non significa però che la Chiesa sia semplicemente di passaggio: «Il Giubileo indetto per il 1500° anniversario del martirio dei santi Areta e compagni, uccisi durante una persecuzione nel 523 a Najran, che ora fa parte dell’Arabia Saudita, ci ha fatto riscoprire che c’è una storia importante della quale facciamo parte», dichiara a Tempi in occasione di una visita al Meeting di Rimini.
Monsignor Martinelli, come hanno reagito i cristiani all’apertura della Porta santa?
È stata un’apoteosi, un grande successo. Questo Giubileo è molto sentito dai nostri cristiani, la Porta santa è stata visitatissima e mi ha stupito che tanta gente sia venuta dalle diverse parti degli Emirati arabi e persino dall’Oman ad Abu Dhabi apposta. Riscoprire san Areta e i suoi compagni martiri ci ha fatto riscoprire parte delle nostre radici.
Perché questo Giubileo è importante per i cristiani d’Arabia?
Noi siamo una Chiesa di migranti e rischiamo di pensare di non avere radici. Invece ci inseriamo in una comunità la cui storia inizia nell’epoca apostolica e il fatto che ci siano stati dei martiri 1500 anni fa testimonia la forza di queste radici. Noi non siamo qui in Arabia solo per lavoro.
È difficile ricordarsi delle proprie radici se non si può testimoniare la propria fede pubblicamente.
Questo non è corretto. Nei paesi del Vicariato è vietata ogni forma di proselitismo, è vero, ma nessuno ci può vietare di testimoniare la fede al lavoro e in famiglia vivendo da cristiani. I musulmani sanno che siamo cristiani, non lo teniamo nascosto.
A cinque anni dalla firma della Dichiarazione di Abu Dhabi sulla fratellanza universale si sono visti miglioramenti nel dialogo interreligioso?
Il segno più grande della ricezione del documento, ad Abu Dhabi, è sicuramente la fondazione della Abrahamic Family House, uno spazio aperto dove si trovano una chiesa cattolica, una moschea e una sinagoga. L’idea non è la fusione delle religioni, ma il rispetto delle differenze, favorito da un’architettura che mostra l’armonia tra gli edifici di culto. E poi, nella stessa piazza, è presente un quarto spazio, un forum dove è possibile incontrarsi e condividere la propria esperienza. Questo luogo nel cuore dell’Arabia ha una forte valenza educativa.
Quale?
Fa capire che le religioni possono dialogare tra di loro nel rispetto delle proprie differenze, senza avere l’obiettivo di superarle, bensì di farle interagire.
La guerra in Terra Santa come ha influenzato la vita dei cristiani nel Vicariato?
Negli Emirati arabi uniti e in Oman non è cambiato tanto. L’unico paese davvero colpito è lo Yemen, perché gli Houthi nel nord, legati a Teheran, si sono schierati apertamente in guerra. Inoltre, a causa della guerra civile, che dura ormai da dieci anni, i cristiani rimasti nel paese sono poche centinaia.
Le suore di madre Teresa di Calcutta come stanno?
Contatto quasi ogni giorno le due comunità delle Missionarie della Carità, nel nord, e la loro serenità mi sorprende sempre. Nonostante le difficoltà continuano a occuparsi dei poveri, degli ammalati e degli anziani. Sono rimaste anche se quattro di loro sono state uccise nel 2016. Sono davvero un grande segno di speranza in questo terribile conflitto.
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