Non importa quanto provocatorie, mercuriali e aggressive siano le politiche di Kim Jong Il: la Cina continuerà ad appoggiare il suo regime nella Corea del Nord, limitandosi a qualche esortazione alla moderazione e cercando di mettere a segno qualche accordo economico sensato in vista del dopo. È questa l’impressione prevalente mentre si esaurisce la terza visita nel giro di un anno del dittatore nordcoreano in Cina, sei giorni a zonzo attraverso alcune delle più importanti città industriali del paese a bordo di un treno blindato.
Il contrasto fra i modi veterocomunisti e militareschi di Kim, sempre abbigliato di una tuta mimetica, e la modernità tecnocratica dei suoi ospiti non è stato l’aspetto più bizzarro della visita. Il colmo del paradosso sono stati gli elogi di Kim al sistema cinese e al suo “dinamico progresso”, formulati da un leader che non pensa minimamente a introdurre nel proprio paese le riforme economiche liberalizzatrici che i comunisti cinesi hanno promosso e i cui effetti loda. In tal senso sono apparse piuttosto surreali le visite di Kim a impianti produttivi automobilistici e a fabbriche di componenti elettroniche dove gli venivano illustrate la tecnologia degli e-book e degli schermi a cristalli liquidi.
Ma tutto si spiega con la convergenza di interessi politici fra le due parti: Kim ha bisogno di mostrare, sia per ragioni di politica interna che di rapporti di forza internazionali, che l’alleanza fra la Corea del Nord e il gigante cinese è solida e immarcescibile come sempre; Pechino è necessitata a confermare il suo sostegno all’imbarazzante alleato nel timore di una crisi rovinosa del suo regime, che potrebbe risolversi con l’arrivo delle truppe americane al confine sino-coreano. Da qui la necessità della reciproca ipocrisia: Kim Jong Il loda un sistema politico-economico che mai e poi mai introdurrebbe nel suo paese, perché risulterebbe fatale alla sua organizzazione personalistica del potere, Pechino finge di credere che Kim condivida i suoi appelli alla moderazione e al perseguimento della denuclearizzazione della penisola coreana.
«Invitiamo tutte le parti in causa a continuare a perseguire l’obiettivo di una penisola di Corea denuclearizzata, pacifica e stabile», ha dichiarato il presidente cinese Hu Jintao riferendosi ai negoziati a sei (Cina, Russia, Stati Uniti, Giappone e le due Coree) sul futuro del programma nucleare nordcoreano. Per poi subito aggiungere: «Tutte le parti devono restare calme ed esercitare l’autocontrollo, mostrare flessibilità, eliminare gli ostacoli, migliorare le relazioni e fare sforzi positivi per realizzare pace, stabilità e sviluppo nella penisola». Pechino ha cercato di dare l’esempio abbinando l’accoglienza con tutti gli onori a Kim (al banchetto d’apertura della visita ha preso parte la maggioranza dei membri del Comitato permanente del Politburo del Partito comunista cinese, un onore molto raro) all’insolita iniziativa di comunicare al presidente sudcoreano Lee Myung-bak, attraverso il primo ministro cinese Wen Jiabao, l’oggetto dell’ennesima visita di Kim Jong Il in Cina: lo studio del suo modello economico.
Sul piano degli accordi economici, le cose non sono andate esattamente come Kim sperava: secondo alcune fonti il leader auspicava che i cinesi si impegnassero ad investire nello sviluppo dell’isola nordcoreana di Hawanggumpyong e nei collegamenti stradali fra la zone economica speciale nordcoreana di Rajin-Sonbong e la città cinese di confine di Hunchun. Pare invece che Pechino consideri un investimento redditizio solo il secondo, e si appresti a bocciare il primo.