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I jihadisti occidentali sono giovani «della porta accanto». Genesi di un fenomeno alimentato «da una promessa»

Intervista al sociologo dell’islam Khaled Fouad Allam, autore del libro "Il jihadista della porta accanto"

Laura Borselli
10/11/2014 - 4:00
Esteri
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isis-stato-islamico
Souleymane ha 24 anni, fa l’operaio meccanico, è musulmano e vive in Francia con la moglie. Un giorno su Facebook conosce la storia di una francese convertita partita per la Siria. «E lì, quando ho visto il suo video ho avuto vergogna di me e mi sono detto che non è possibile, se lei lo ha fatto, allora io non ho nessuna scusa. Sono andato da mia moglie che era nella camera accanto e le ho detto: tu vuoi partire? Anche lei aveva visto lo stesso video, nello stesso momento, e anche lei aveva avuto lo stesso scatto. L’indomani ho fatto il mio passaporto». Una famiglia normale, una storia portata in casa da un social network e l’istantaneo, parallelo, accendersi di una miccia che nessuno avrebbe mai potuto immaginare così corta. All’improvviso il lavoro, la routine e tutti quegli elementi che sembravano definire i giorni di due giovani “integrati” diventano le prove schiaccianti di una connivenza con gli infedeli cui occorre mettere fine al più presto.

libro-jihad-khaled-allamLa soluzione si chiama jihad e i due la realizzeranno in Siria. L’episodio è raccontato dal giornalista francese David Thomson e ripreso da Khaled Fouad Allam nel suo Il jihadista della porta accanto, da poco uscito per Piemme. Souleymane e Clémence sono un colpo deciso a un castello di certezze che in realtà perde pezzi da tempo. La guerra santa non è, non è più, un rifugio per delinquenti o disperati. È scelta e cercata da persone normali, da immigrati di seconda generazione apparentemente integrati e che vivono in Europa. Da occidentali convertiti all’islam in età adulta e poi risucchiati dal radicalismo.

«Tuo figlio è morto da martire», dice una voce inglese quando il papà di Giuliano Ibrahim Delnevo alza la cornetta nel giugno 2013. Il suo ragazzo, genovese, classe 1983, era arrivato in Siria sei mesi prima. Da lì una telefonata via Skype per dire alla famiglia che il percorso accidentato e travagliato che lo aveva portato alla conversione stava culminando nell’arruolamento per il jihad. «Eppure a queste cose stentiamo a credere, convinti che per diventare terroristi serva una “eccezionalità”, crederlo ci fa sentire al sicuro», spiega a Tempi Khaled Fouad Allam.
Il jihadista della porta accanto è in effetti un’indagine che sfata molti luoghi comuni e soprattutto punta a indagare le cause profonde all’origine di casi di cronaca che fanno scalpore. Sociologo di origine algerina naturalizzato italiano, Allam studia queste tematiche da 25 anni. Uno dei suoi maestri è stato Mohammed Arkoun, islamologo di fama e professore alla Sorbona, che gli dedicò un libro: «A Khaled, che amplificherà spero una lotta difficile ma gratificante».

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«Il disagio economico può essere un aggravante, ma non è la ragione profonda. Certo, non possiamo sottovalutare che la crisi che stiamo attraversando fa sì che i ragazzi di oggi abbiano davanti a sé un muro. Dieci anni fa non era così. Ma più ancora questi ragazzi soffrono quello che io chiamo la fine delle speranze collettive. Sempre fuori, in mezzo alla gente, e sempre soli. Il solipsismo ti rende più fragile di fronte a una dimensione, magari virtuale, che promette qualcosa».
Non a caso il testo di proclamazione del califfato dell’esercito islamico in Iraq e Siria (Isis) si intitola “La promessa di Allah”. «È un termine importante dal punto di vista psicolinguistico. Individua un prima, un tempo orrendo legato a una esperienza negativa dell’Occidente, cui si assicura un riscatto ottenuto a mezzo di una missione individuale e collettiva che ottiene uno status symbol a chi la compie. Anche quando muore, soprattutto quando muore, il jihadista dà qualcosa. In arabo la radice di jihad è molto forte, intende uno sforzo interiore psicologico, possiamo chiamarlo lavaggio del cervello, ma muove sempre da solitudine e incomunicabilità».

Allam Khaled FouadKaled, primo jihadista
Nel libro Fouad Allam (foto a fianco) ricostruisce il caso del primo jihadista europeo diventato terrorista nel 1995. Kaled Kelkhal, nato in Algeria e trasferito in Francia a due anni. Sembra destinato a una vita tranquilla, a scuola va bene, non ha grilli per la testa. Poi al liceo lo scontro con una realtà in cui viene escluso, emarginato. Kaled comincia a delinquere e finisce in prigione. Qui vive una “reislamizzazione” ed entra in contatto con ambienti estremisti, al punto che arriverà a compiere diversi attentati e verrà ucciso dalla polizia a Lione mentre ancora punta la pistola sui gendarmi che lo circondano. Quello che oltre dieci anni fa per Khaled fu un ambiente assolutamente permeabile al radicalismo, ossia la prigione, oggi potenzialmente è ogni luogo grazie a internet e in particolare ai social netwtork.

Il fenomeno del jihadismo del vicino di casa non si capisce senza considerare l’esplosione di internet. Da un lato c’è la perizia comunicativa dei nuovi jihadisti (pensiamo ai video delle decapitazioni sapientemente confezionati e pubblicizzati), dall’altra la pervasività dei social network, di fronte a cui ci sono ragazzi sempre più soli e passivi. «La rete – spiega Allam – radicalizza un terreno già fertile, preparato dalle televisioni satellitari negli anni Novanta, che hanno sempre privilegiato l’islam fondamentalista. Ma internet aggiunge un elemento di passività dell’utente se possibile maggiore di quello che si verifica con la televisione, per cui qualunque porcheria diventa potentissima».

I nostri vicini partono per il jihad, bandiere nere vengono innalzate a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste, eppure il Vicino Oriente non sembra così vicino e le guerre compiute in nome dell’islam sembrano appartenere a un mondo che non ci riguarda, che ci rifiutiamo di comprendere perché, come il generale De Gaulle, pensiamo che «nell’oriente tutto è complicato». Eppure la proclamazione di un califfato in Iraq segna un salto di qualità molto significativo nella guerra globale per il jihad, con ripercussioni anche fuori dal Medio Oriente. «Al Qaeda è sempre rimasta in una logica di destabilizzazione, mentre l’Isis con la proclamazione di un califfato va molto oltre la propaganda. Con la fine dell’impero ottomano, nel 1922, l’islam si trovò sprovvisto di un’autorità anche religiosa; da allora ci fu chi progettava di ricostruirla con gli stati nazione e chi pensava a un califfato di matrice araba (come i Fratelli Musulmani), perché nell’ambito del diritto pubblico solo il califfato fonda un’autorità. Inserendosi in questa storia, esasperandola e appropriandosene, l’Isis crea un punto di riferimento per tutto l’islam politico ed è concreto il pericolo che si estenda. Proprio perché l’obiettivo è il progetto del vecchio califfato a cui aggiungere anche pezzi dell’Africa subsahariana. Quando l’Isis parla di un califfato mondiale, significa che il mondo intero, poco a poco, dovrà essere sottomesso all’islam. Si capisce così che questa volontà egemonica è una premessa per una nuova forma di totalitarismo, di un totalitarismo del terzo tipo, proprio perché si muove nella globalizzazione».

Allam dedica Il jihadista della porta accanto ai genitori che gli hanno insegnato un altro islam e «a tutte le vittime crudelmente assassinate in questa guerra in nome del jihad». Per un sociologo che da vent’anni studia queste tematiche con uno sguardo scientifico ma anche con il portato di una compartecipazione profonda il momento è doloroso. Soprattutto perché vissuto con la consapevolezza che questo clima di paura, di diffidenza fa il gioco dei terroristi, isola inevitabilmente i cosiddetti musulmani “moderati” e mette in evidenza l’incredibile afasia dell’Europa. «C’è una incomunicabilità tra le due sponde del Mediterraneo. Con l’islam subentra una storia (e non mi riferisco solo al colonialismo) che impedisce un vero dialogo. In questo contano da un lato l’arretratezza dell’islam che non si è modernizzato, e dall’altra parte il fatto che gli europei vivono tutto ciò che è islamico come non europeo. In Europa si percepisce una diversità che diventa una barriera simbolica tra noi e gli altri. Questa è una trappola soprattutto nella fase adolescenziale. Il terrorismo di matrice islamica partito dall’Europa ci interroga su cosa sia opportuno fare. Pone molte domande all’Europa. A un’Europa che purtroppo non sembra avere la volontà politica di rispondere».

Tags: al qaedaCaliffatocoranoEuropaInternetIsisIslamjihadmedio orienteoccidenteStato Islamico
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