Israele, gli ostaggi e la tregua. Il vantaggio di Hamas nella “trattativa asimmetrica”
Gli ostaggi sono da sempre l’incubo di Israele. Ogni ostaggio è una vita, una persona, una famiglia. Deve esser fatto ogni sforzo per riportarlo a casa. E nemmeno i corpi dei caduti possono essere abbandonati: devono tornare alle famiglie. Lo sanno bene i terroristi fondamentalisti che non si stancano di ricordare nei loro messaggi: amiamo la morte più di quanto voi amate la vita.
Il vantaggio di Hamas
Lo sanno bene i capi di Hamas che ora stanno trattando con Israele. Ma non è un trattativa asimmetrica: non ci sono due Stati che negoziano uno scambio di prigionieri. Israele non parla con Hamas, che è una milizia armata, non può. La mediazione passa attraverso altri Stati, l’Egitto che a sua volta parla con il Qatar, e gli Stati Uniti che cercano di farsi mediatori di un accordo che permetta all’amministrazione Biden di mostrare, e confermare, nell’imminenza delle elezioni, il proprio ruolo determinante nel garantire la stabilità mondiale, almeno nelle zone strategiche, quali il Medio Oriente, o almeno il contenimento dei conflitti in guerre cosiddette “a bassa intensità”. E altri cercano di inserirsi nella delicata trattativa, ritagliandosi ruoli strategici nella regione, come la Russia o la Cina, o rafforzando il proprio potere di influenza sulle milizie fondamentaliste, come sta facendo l’Iran.
Sono tutti Stati sovrani, con i quali un trattativa è comunque possibile, per quanto difficile. Ma ogni ipotesi deve fare i conti, alla fine, con una milizia come Hamas, che a differenza di Israele non deve rendere conto ad una opinione pubblica, ad un elettorato, a famiglie che sfilano per strada mostrando i cartelli con i volti dei propri familiari. Sono le stesse persone che hanno allestito a Tel Aviv la grande tavola di Shabbat, in perenne attesa di quanti sono stati rapiti, che sul sito Instagram #bringthemhomenow contano i giorni, le ore e i minuti da quel mattino del 7 ottobre, quando i terroristi hanno scatenato l’attacco.
O tutti o nessuno
Non è una tregua simmetrica: non lo è in nulla. Hamas può centellinare ogni persona rilasciata e, contemporaneamente, calcola con sapiente cinismo chi liberare e chi trattenere, sapendo che ogni persona che esce dall’inferno di Gaza è una ferita per i familiari di chi non esce.
Invano le famiglie invocano: o tutti o nessuno. La pressione sul governo è e sarà sempre più forte. E il governo è diviso. I partiti di estrema destra israeliani ricordano che ogni giorno di tregua dà ad Hamas l’opportunità di riorganizzarsi. Benjamin Netanyahu lo sa bene. Ha promesso che, alla fine, Hamas uscirà annientata, ma non può ignorare gli appelli alla tregua umanitaria. E ogni azione militare, ogni bombardamento, comporta vittime sempre più alte tra i civili, che sono ancor più degli ostaggi, usate come scudo umano. Da decenni le fazioni palestinesi costruiscono basi e rifugi accanto o sotto scuole, moschee, soprattutto ospedali.
Ogni giorno segna un passo diverso, voci di imminenti accordi si alternano a smentite, momenti di pausa a bombardamenti, lanci di razzi da Gaza come dal Libano, attacchi al coltello a Gerusalemme Est e scontri e operazioni in Cisgiordania.
Uno al posto di mille
Non basta: nelle trattative sono stati inseriti ora i palestinesi detenuti nelle carceri israeliane (quelli a cui ha fatto riferimento papa Francesco). Sono circa diecimila ed in base alla legge sulla detenzione amministra il loro “fermo” può essere prolungato all’infinito – sì, pure “provvisoriamente” – in attesa del processo, ma senza che possano vedere familiari o avvocati. Una misura durissima, per Israele necessaria e inevitabile per contrastare il terrorismo.
Sono questi i prigionieri di cui Hamas chiede la liberazione, almeno tre per ogni ostaggio. Ma in passato ha chiesto e ottenuto molto di più. Oltre mille in cambio del soldato Gilad Shalit, rapito al confine con la Striscia di Gaza. Ci vollero cinque anni per lo scambio e tra i palestinesi rilasciati nel 2011 c’era anche Yahya Sinwar, ora capo militare di Hamas a Gaza, numero uno tra gli obiettivi dell’offensiva israeliana, l’uomo che avrebbe organizzato l’attacco terroristico del 7 ottobre.
Quello scambio fu molto discusso. Per molti è la prova che Israele non abbandona nessuno dei suoi figli, che la loro vita è sacra; altri dissero che i prigionieri liberati sarebbero diventati gli autori di futuri attentati e altre vite avrebbero pagato il costo della trattativa.
Netanyahu sa bene tutto questo: e ricorda il primo grande successo di Israele nella liberazione di ostaggi. Il raid di Entebbe, quando nel 1976 un commando israeliano liberò 102 ebrei che si trovano su un volo dell’Air France dirottato in Uganda da un gruppo palestinese. Furono uccisi tutti i terroristi, sette, tre ostaggi morirono, tra i militari israeliani ci fu un solo caduto: era il tenente colonnello Yonatan Netanyahu, fratello di Benjamin, l’attuale premier che ora deve decidere sulla sorte di altri ostaggi, in una asimmetrica quanto drammatica trattativa.
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