Articolo tratto dall’Osservatore romano – «I bisogni più urgenti riguardano l’alloggio, il cibo e l’igiene. Tuttavia con il passare del tempo bisognerà fronteggiare altre necessità, come l’istruzione dei bambini e dei giovani e alloggi più dignitosi per le famiglie». Quando nel 2012 venne chiamato a guidare la chiesa dedicata alla Vergine Maria a Suleimanjia, nel Kurdistan iracheno, padre Jens Petzold, missionario tedesco, non immaginava che il suo incarico lo avrebbe messo davanti a una sfida così impegnativa.
A causa dell’avanzata dei miliziani del cosiddetto Stato islamico, nell’ultimo anno tanta gente è scappata da Mosul, da Qaraqosh e da tutta l’area della Piana di Ninive, dove per secoli cristiani e musulmani hanno vissuto gli uni accanto agli altri e dove i bambini delle due religioni frequentavano le stesse scuole. Così un gruppo consistente è arrivato a bussare alla porta del suo convento. «Al momento il monastero ospita 240 profughi — dice padre Jens — e tra loro ci sono molti bambini». Una goccia nel mare, certo, se è vero che, secondo le stime delle Nazioni Unite, nel territorio del Kurdistan autonomo in un solo mese hanno cercato rifugio più di 300.000 persone.
Attualmente, ogni spazio del convento è occupato dalle famiglie e anche la chiesa è stata divisa con delle tende per poter accogliere il maggior numero di persone. Sono state organizzate attività didattiche e di intrattenimento per i bambini grazie alla disponibilità e all’aiuto di molti. «Oggi, visto il gran numero di rifugiati e con la previsione di nuovi arrivi, dobbiamo fronteggiare i bisogni primari, nella speranza che alcuni cristiani d’oriente possano rimanere nella terra dei loro antenati, culla del cristianesimo», spiega il missionario in una testimonianza diffusa dall’agenzia Misna. Ma presto occorrerà attrezzarsi per aiutare questa gente a costruirsi un futuro.
Anche gli abitanti di Suleimanjia sono stati molto accoglienti con i profughi. Essere curdi, infatti, significa anche conoscere da vicino la sofferenza e la persecuzione. Così hanno donato coperte, abiti e soldi. Le persone che hanno trovato rifugio nel convento si sforzano di cercare la tranquillità ma i loro animi sono tormentati. Racconta padre Jens: «Molti vivono qui da diversi mesi. Erano persone che avevano un certo benessere e adesso non hanno più nessuna sicurezza. Inoltre, il fatto che da 30 anni non ci sia realmente pace in Iraq li ha traumatizzati profondamente. Vivono nell’incertezza, senza sapere quando potranno rientrare nelle loro case. Molte famiglie sono formate da giovani che hanno da poco costruito con amore la propria abitazione e hanno il timore, se non la certezza, che tutto ciò che era loro caro è stato distrutto o portato via. Ad alcuni restano solo foto-ricordo. E poi c’è l’angoscia per i parenti rimasti nei territori controllati dagli islamisti».
Padre Jens invita i profughi a pensare con fiducia al futuro anche se sono in molti a credere di non poter mai più ritornare a casa. «Dobbiamo dare loro la speranza di un domani», insiste il religioso, che parla anche dell’importanza della preghiera. «Se un bambino rende grazie a Dio perché suo padre è arrivato qui sano e salvo vuol dire che i suoi occhi sono aperti a riconoscere il volere del Signore su questa terra. Anche i musulmani hanno le loro preghiere. Tutti preghiamo per la pace in questa terra martoriata. Preghiamo per le persone lontane».