Da ormai quasi quattro mesi l’Iran sta affrontando la più vasta e lunga ondata di proteste dalla Rivoluzione islamica del 1979, la prima in 44 anni ad aver messo in seria di discussione il regime teocratico e i suoi “dogmi”, dal velo obbligatorio per le donne all’intoccabile figura della guida suprema ayatollah, Ali Khamenei.
Nonostante oltre 500 manifestanti uccisi, le proteste vanno avanti dallo scorso 17 settembre quando nella regione del Kurdistan iraniano, centinaia di persone hanno inscenato il primo sit-in per protestare contro la morte di Mahsa Amini, una ragazza curda di 22 anni che era deceduta il giorno prima a seguito dell’arresto da parte della polizia morale iraniana per aver indossato male il velo.
Processi farsa, impiccagioni e proteste
Per il momento, il regime di Teheran non sembra fare alcun passo indietro e sta invece continuando a condannare a morte persone in processi farsa e a colpire qualsiasi forma di critica e condanna. Gli ultimi aggiornamenti vedono due giovani condannati a morte con l’accusa di “corruzione sulla terra” e “inimicizia contro Dio”: il 18enne Mehdi Mohammadifard, originario della città di Nowshahr, nella provincia di Mazandaran, sul Mar Caspio, e il 19enne Mohammad Boroghani, originario di Pakdasht a sudest di Teheran. Entrambi sono accusati di reati di “inimicizia con Dio” e “corruzione sulla terra”, reato che è già costato la vita ad altri due giovani di 23 anni, impiccati a distanza di meno di una settimana l’uno dall’altro a inizio dicembre.
Secondo il Critical Threats Project (Ctp) presso l’American Enterprise Institute, un nuovo ciclo di vaste manifestazioni potrebbe nuovamente innescarsi nei prossimi giorni, innescando di conseguenza una nuova ondata di repressione, morti, arresti e condanne. Le forze di sicurezza hanno notevolmente aumentato la loro presenza in alcune città, come Javanroud (nella provincia occidentale di Kermanshah) e Semirom (nella provincia centrale di Isfahan Province) teatro, il 31 dicembre, di vaste manifestazioni. I coordinatori e le organizzazioni della protesta hanno inoltre chiesto manifestazioni e scioperi in tutto il paese dal 6 all’8 gennaio per commemorare il terzo anniversario dell’abbattimento del volo 752 della Ukraine International Airlines abbattuto per errore nel 2020 dai Guardiani della rivoluzione iraniana poco dopo il decollo dall’aeroporto internazionale di Teheran.
Un “coltello” nel corpo del regime
Il regime, sempre più isolato, finora ha retto a causa della sua complessa struttura sviluppatasi in questi 44 anni proprio per prevenire una contro-rivoluzione, ma alcune crepe sembrano manifestarsi, almeno sul lato della critica alla gestione delle proteste. Nei giorni scorsi, sulla rete locale Tabarstan, Hamid Abazari, alto ufficiale dei Guardiani della rivoluzione iraniana, ha espresso una serie di critiche nei confronti di alti comandanti e funzionari accusati di aver «fallito» e di essersi opposti ai valori rivoluzionari. In una rara ammissione delle divisioni interne ai pasdaran, Abazari ha anche condannato i funzionari che non avevano preso una posizione chiara sulle proteste, osservando che «funzionari di prim’ordine del regime» erano tra coloro che si erano schierati contro Khamenei.
Ovviamente, il breve filmato con le dichiarazioni di Abazari ha fatto il giro dei media internazionali e dei social network, tanto da costringere il 31 dicembre il dipartimento delle pubbliche relazioni pubbliche dei Guardiani della rivoluzione a smentire il proprio ufficiale, sottolineando che questa era l’opinione personale di Abazari e «non corrisponde ai fatti». Critiche alla gestione delle manifestazioni sono giunte anche dall’ex comandante dei famigerati basij, il gruppo paramilitare parte dei Guardiani della rivoluzione incaricati della sicurezza interna, Gholamhossein Gheybparvar. Citato dall’agenzia di stampa governativa Irna, l’alto ufficiale dei pasdaran ha affermato che «alcune élite avevano paura di essere danneggiate», in quello che appare come un riferimento alla risposta tarda alle proteste da parte dei vertici del regime. «Non neghiamo i problemi economici, i prezzi alti, la disoccupazione, ecc., ma era il caso di dare a chiunque il diritto di infilare un coltello nel corpo del regime?», ha affermato Gheypbarvar.
Tra le forze rivoluzionarie «dubbi e incertezze»
Le critiche da parte degli apparati di sicurezza al governo sono un’ulteriore conferma del malcontento che sta montando tra religiosi e funzionari iraniani nei confronti del governo e del suo presidente Ebrahim Raisi, considerato un mero esecutore del volere di Khamenei e salito al potere nel 2021 in quelle che sono state le elezioni con la più bassa affluenza nella storia dell’Iran 48,4 per cento. Da un bollettino speciale preparato da esperti dei media per il comandante in capo dei Guardiani della rivoluzione iraniana, il generale Hossein Salami – fatto trapelare a inizio dicembre dal gruppo di attivisti informatici Black Reward – è emerso che tra «le forze rivoluzionarie» sarebbero sempre di più «i dubbi e le incertezze» sul futuro del regime. Inoltre, sempre in base a quanto emerso dai documenti diffusi da Black Reward, i pasdaran avrebbero constatato che «il più grande risultato delle recenti rivolte sembra essere la perdita della paura della gente nei confronti delle forze militari e di polizia».
In un’intervista al quotidiano Entekhab News, Mohammad Sadr, un membro del Consiglio di opportunità iraniano che affianca nelle scelte Khamenei ha avvertito invece che mentre le proteste hanno in gran parte evitato slogan legati all’economia, il deterioramento della situazione economica che si prospetta per il 2023 potrebbe portare a manifestazioni «molto pericolose». Nei prossimi mesi, alle istanze di maggiore libertà, si potrebbero dunque unire quelle rivendicazioni di carattere economico che avevano già sconvolto l’Iran tra il 2019 e il 2020. I dati, del resto sono piuttosto allarmanti. La valuta iraniana, il rial, ha raggiunto un nuovo minimo storico contro il dollaro statunitense il 28 dicembre, con un dollaro scambiato per 430.000 rial, rispetto ai 300.000 di settembre, prima dell’ondata di proteste. Per tentare di risolvere la situazione, lo scorso 29 dicembre, il governo ha nominato un nuovo governatore della Banca centrale, l’ex viceministro delle Finanze, Mohammad Reza Farzin, che ha sostituito Ali Salehabadi, che si è dimesso dopo 15 mesi dall’assunzione della carica.
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