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«Io, vittima del talidomide, come tante altre sono stata una cavia umana»

Nadia Malavasi dal 2004 ha costituito l'associazione delle vittime del talidomide: anche sua madre aveva usato il farmaco messo in commercio senza essere prima testato su animali gravidi.

Chiara Rizzo
18/09/2012 - 8:25
Interni
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«Siamo molto dispiaciuti. Chiediamo perdono che per quasi 50 anni non siamo riusciti a trovare il modo di comunicare con voi da essere umano a essere umano». Con queste parole lo scorso 1 settembre l’amministratore delegato dell’azienda farmaceutica Gruenenthal ha chiesto scusa alle 10 mila (almeno) vittime di tutto il mondo del talidomide, farmaco messo in commercio tra il 1957 e il 1961. Si trattava di una medicina venduta per curare disturbi molto comuni per le donne incinta, dalle nausee alle leggere influenze: ma il talidomide non era stato mai sperimentato prima su animali gravidi e così non si poterono prevedere i terribili effetti collaterali per chi lo assunse nei primi mesi di gravidanza. Eppure non è mai stato effettuato un censimento ufficiale delle vittime nel nostro paese.

ALMENO 600 VITTIME. «Quando però nel 2006 il talidomide è tornato in commercio, per curare tumori come il mieloma, si è ripreso a parlare di quello che era successo» racconta a tempi.it Nadia Malavasi (nella foto), presidente onorario dell’associazione talidomici italiani (tai onlus), che raccoglie le vittime nel nostro paese. «È stato allora che sono nate associazioni delle vittime in Spagna, in Austria e anche da noi: ai dati apparsi sino ad allora nella letteratura scientifica, che stimavano a 10 mila le vittime, se ne sono aggiunti altri in questo modo, che hanno fatto raddoppiare le stime». Nadia Malavasi è una di queste vittime. «Eravamo stufi di essere trattati come bestie rare. Grazie all’intervento di Carlo Giovanardi e del governo Berlusconi nel 2006, per la prima volta una legge ha riconosciuto la nostra come una malattia, prima di allora nemmeno i medici sapevano nulla. Il problema è che abbiamo fatto noi da cavie a questo farmaco. Non vennero mai eseguiti test sugli animali. Nessuno nemmeno in Italia ci ha detto grazie, o scusa, eppure solo dopo la nostra disgrazia è nata la farmacovigilanza. Siamo state cavie umane e siamo bistrattate: con l’associazione dobbiamo arrangiarci con le sole nostre forze, economiche e umane. Ai nostri 314 associati ho dovuto spiegare io, uno per uno, di cosa soffrivano e cosa potevano fare. Abbiamo fatto dei conti precisi e oggi sappiamo che il 50 per cento dei bambini nati vittime del talidomide sono morti dopo i primi tre mesi di vita: per atresia esofagea e anale, per malformazioni al cuore e altri organi interni. Perciò si può stimare che le vittime siano state almeno 600. A questi casi si aggiungono gli aborti spontanei, su cui è impossibile effettuare un conteggio. Può essere accaduto che alcune madri abbiano perso il loro bimbo a causa del talidomide senza saperlo».

CAVIE UMANE. Queste parole sono risuonate nell’allarme lanciato di recente da Carlo Giovanardi, in merito alla discussione in Commissione politiche comunitarie per l’approvazione di un articolo alla legge comunitaria del 2011, che comporterebbe l’abolizione degli allevamenti di animali per test farmaci. «Per il talidomide furono le donne incinte a fare da cavia. Se la sperimentazione fosse stata fatta prima sugli animali si sarebbero evitate drammatiche conseguenze per migliaia di persone». A questa denuncia ha risposto polemicamente Michela Kuan, dottoressa rappresentante della Lega antivivisezione, che ha accusato Giovanardi di aver detto falsità, perché secondo lei i test del talidomide erano stati effettuati anche sugli animali ma non aveva portato alle conseguenze che poi il farmaco ebbe sulle donne e i bambini. «È proprio falso quello che dice Kuan – replica Malavasi – C’è un’ampia bibliografia scientifica che ha dimostrato come i test del talidomide erano stati eseguiti solo su animali non gravidi prima che esplodesse lo scandalo. La realtà è che fino alla scoperta degli effetti sulla morfogenesi degli embrioni umani, grazie alla nostra nefanda esperienza, non si sapeva niente. I test eseguiti nel 1962 hanno variamente evidenziato danni agli arti, alla spina dorsale, al cranio anche per i feti animali». Malavasi prosegue: «Io sono disturbata da questo atteggiamento degli animalisti oggi proprio perché sono un’amante degli animali, che mi hanno regalato molto affetto nella vita e mi hanno aiutata: ho un cane e un gatto. Ma il punto è che invece su di noi vengono dette molte falsità: gli antivivisezionisti cavalcano l’onda delle notizie pubblicate prima del ’61, e si fermano a quelle per dimostrare che è inutile sperimentare su certi tipi di animali».

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«MIA MADRE LO USÒ PER L’INFLUENZA». Nadia è nata con una grave focomelia agli arti superiori e all’arto inferiore sinistro. Ricorda benissimo un particolare: «La scatoletta di talidomide. Mia madre la conservò sino alla sua morte nel mobiletto del bagno». Racconta: «Mia madre era incinta, ma non lo sapeva ancora perché ai primissimi giorni. Le venne l’influenza con una forte tosse e il medico di base le prescrisse questo farmaco che era anche un’antinfluenzale. Mia madre ne prese al massimo uno o due pillole. Poi scoprì di essere incinta. Per dire: dovette subire l’estrazione di un dente durante la gravidanza e per non danneggiarmi non si era fatta dare nemmeno l’anestesia. E invece per quelle due pillole… A molti genitori in quegli anni gli ospedali proponevano persino l’iniezione letale». Nel 1961, la mamma di Nadia lesse sui giornali dello scandalo talidomide: «Si ricordò della scatoletta che aveva ancora nell’armadietto. Consultò un medico e le confermarono che evidentemente la mia focomelia era colpa di quelle pillole. I miei scrissero, tramite un avvocato, anche alla Gruenenthal, che scaricò la responsabilità dicendo di aver ceduto la licenza alle fabbriche italiane. Per noi giuridicamente non c’era nulla da fare, non essendo nemmeno riconosciuta la malattia: le famiglie vittime hanno affrontato un rimbalzo di responsabilità, un muro di gomma. I miei misero da parte la causa e mia madre morì quando avevo 16 anni. Mio padre allora gettò tutte le prove raccolte, anche la scatoletta del farmaco e le risposte della Gruenenthal. Le prime vittime di questa storia credo siano stati i nostri genitori. Immaginate cosa si prova a vedere un bambino senza braccia e senza averne una vera colpa».

«DIVERSI IN UN MONDO DI NORMALI». Oggi Nadia Malavasi è laureata ma non lavora: «Mi sono arrangiata sempre come potevo e con quello che avevo, pur con tante difficoltà. Non ho mai chiesto però un lavoro per categorie protette. Non ho mai voluto un lavoro perché sono disabile. Da otto anni lavoro come volontaria per la tai onlus. Leggendo su internet di esperienze simili in Germania, nel 2004 ho iniziato a cercare altre persone vittime come me. Lanciai un appello su internet. Poi alcuni amici mi segnalarono dei casi “sospetti”. Vede, noi abbiamo sofferto dei medesimi problemi, in un certo senso ci possiamo riconoscere. Ricordo ancora il primo incontro con un’altra vittima del talidomide. Ci guardavamo, ed eravamo stupiti di scoprirci così simili, quando avevamo vissuto sempre da “diversi” in mezzo ad un mondo “normale”. C’era un po’ di imbarazzo tra noi. Poi ci siamo messi a tavolino e abbiamo stilato lo statuto». Nadia non ha remore. «Tutta questa sofferenza ci è causata dallo Stato italiano che per quasi 50 anni ha oscurato il nostro problema, e invece dovrebbe veramente pensare di istituire un tavolo di coordinamento. Non è giusto che siamo noi malati, con un’associazione di volontariato, a coordinare tutte le vittime, a costruire un database sulle varie patologie, a seguire il percorso per chiedere e ottenere gli indennizzi. È tutto sulle spalle degli ammalati».

Tags: carlo giovanardicaviecavie umaneGruenenthalMichela KuanNadia Malavasitalidomidevivisezione animali
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