“Io, ex Pd, a Torino voterò Paolo Damilano”

Di Marco Margrita
21 Agosto 2021
Chiacchierata a tutto campo con Marco Calgaro, già vicesindaco di Sergio Chiamparino, che invita i cattolici a far "nascere un soggetto moderato autonomo e laico"

«Torino ha bisogno della vittoria di un candidato e di una coalizione che creino una vera discontinuità nella gestione di una città che, anche con la gestione Appendino è stata, per quanto attiene la “vera gestione del potere”, nella mani dei soliti noti che da trent’anni la governano e la rendono di fatto una città chiusa al cambiamento (e in pieno declino). La sindaca pentastellata, come aveva ben notato da subito il vostro giornale, si è rivelata “una finta incendiaria”. Proprio per questo io voterò con convinzione Paolo Damilano, perché lo ritengo un vero candidato civico, in grado di porre le basi per un rinnovamento e un rilancio della città, che deve iniziare da un incisivo ricambio, non solo del ceto politico, ma soprattutto della classe dirigente. In quest’ottica mi sembra il caso di dargli fiducia e metterlo alla prova e di sostenerlo».

Ad affidare a Tempi l’endorsement che non ti aspetti, soprattutto se rimani ancorato agli schemi di un bipolarismo che pure mostra tutta la sua stanchezza, è Marco Calgaro. Una personalità che ha speso una porzione significativa del proprio impegno politico nel cercare di dare peso e rappresentanza, non solo nel capoluogo subalpino, alla prospettiva popolare nel centro-sinistra.

Già vicesindaco di Sergio Chiamparino (nel suo primo mandato, tra il 2001 e il 2006), e poi capolista nella lista civica dello stesso Chiamparino quando l’ex sindaco non si era più iscritto al Pd, con pochi altri ha cercato di far parlare la “lingua del Nord” all’alleanza che poi vinse le elezioni regionali del 2016. Una scelta in favore del candidato civico appoggiato anche da tutto il centrodestra, la sua, che fa certo notizia e lancia una provocazione al mondo cattolico cittadino che, anche negli addentellati più istituzionali, da molti lustri si è attestato su un quasi automatico supporto alle coalizioni di marca progressista.

Medico, Primario di chirurgia all’Ospedale “Michele e Pietro Ferrero” di Verduno, ha alle spalle anche due mandati in Parlamento, deputato prima del Pd e successivamente (2011) dell’Udc. Prima di tornare a dedicarsi a tempo pieno alla professione medica, pur senza perdere di vista le cose della politica non politicante, tanto che non si risparmiò di “scandalizzare” qualche amico d’un tempo partecipando alle veglie delle Sentinelle in Piedi, dal «partito che si voleva a vocazione maggioritaria ma che si è fatto ben più tristemente solo radicale di massa» ha fatto in tempo ad uscire, cercando di ricostruire una posizione centrista autonomia prima con la rutelliana Api e, poi, sotto le insegne scudocrociate dell’Udc.

A seguire, il suo pensare e agire politico, «senza cercare spazi di potere, ma tentando d’innescare processi originali di presenza e rappresentanza», l’ha concretizzato con gli ultimi alfieri del Gonfalone popolare, che dalla ridotta di Moncalieri (dove opera l’ultima sezione sturziana italiana) stanno tornando a radicarsi su e giù per la Penisola. «Da militante», dice lui. «Come un autorevole padre nobile, che ha appreso l’arte politica da maestri come Giovanni Porcellana e non ne ha dimenticato la lezione», gli riconoscono i suoi compagni di cordata.

Non ci facciamo sfuggire l’occasione di un confronto a tutto campo, con libertà di giudizio e oltre le stantie categorizzazioni che stanno, complice l’eccezionalità della stagione draghiana, mostrando le corde. Non si sottrae.

Il quadro politico, in questa contingenza così particolare, a ben vedere, sembra prepararsi ad aggregazioni e disgregazioni. Le coalizioni come le abbiamo conosciute, o addirittura la stessa idea che sia la coalizione a determinare un’identità politica, sembrano destinate a non sopravvivere alla parentesi del “governo senza aggettivi”. Il voto amministrativo potrebbe essere un catalizzatore di questo processo.

Il quadro politico generale è al contempo “depresso e statico” ed in grande movimento. Depresso e statico perché la grande maggioranza delle persone è completamente disinteressata, disillusa e delusa dal quadro politico attuale e accoglie ormai con grande sospetto ogni proposta della politica. Mi pare più incline alla protesta e alla contestazione permanente su tutto, e in tutto questo il Covid ha fatto la sua parte conducendoci all’esasperazione.
Proprio per questa situazione ormai esasperata, con una povertà ormai diffusa e palpabile, con i giovani abbandonati al loro destino sia formativo che lavorativo, si registra la più profonda disillusione circa la reale capacità della politica di interpretare questo momento. Esempi lampanti ne sono le priorità individuate da Letta e dalla sinistra circa il futuro del paese (ius soli, voto ai sedicenni, legge Zan e da pochi giorni l’eutanasia) e gli slogan con cui certa destra continua a presentarsi (gli sbarchi e l’immigrazione, la contrarietà al green pass, qualche strizzatina d’occhio ai no vax). Questi atteggiamenti, insieme alla continua ricerca di un nemico contro cui scagliarsi per guadagnare un po’ di consenso rendono bene l’idea dell’emergenza vera in cui versiamo: la mancanza di un progetto in cui riconoscersi per far ripartire il paese, un progetto che unisca e non divida, che richiami alla responsabilità, al riconoscersi in una comunità, alla tenace volontà di costruire un futuro sereno per noi e i nostri figli.

I cattolici, i popolari quale modalità di presenza possono avere? Quali scelte in questo contesto?

Emerge con tutta evidenza il fatto che manca totalmente nell’Italia di oggi una formazione politica che assuma, prima ancora del progetto, i suoi valori fondanti, quelli che hanno consentito di ricostruire l’Italia e l’Europa nel dopoguerra. Per me questi valori, che vanno attualizzati e tradotti in progetto per il futuro, sono condensati nel popolarismo e vanno rivitalizzati anche all’interno del Partito Popolare Europeo, che con la gestione consociativa col Pse degli ultimi decenni necessità di una rivitalizzazione pena l’offuscamento dell’europeismo e della stessa necessità dell’Europa come realtà federale.
Il governo Draghi ci ha consentito perlomeno di renderci pienamente conto dell’emergenza, delle priorità da affrontare per rendere il paese competitivo e della possibilità reale (probabilmente l’ultima) di avere i fondi necessari per la ripartenza; si avverte però la totale insufficienza del quadro politico attuale a supportare e trasferire nel paese queste istanze, col rischio che finita la stagione di questo governo si torni alla tragica realtà conflittuale precedente e si perda l’ultimo treno.

Sì, ma che fare?

I cattolici e i popolari, a parer mio, non possono continuare a fare le foglie di fico nei partiti attuali, dove sono totalmente ininfluenti e non riescono a caratterizzare in alcun modo i programmi delle attuali coalizioni.  A sinistra perché ormai il Pd, che ne è il partito guida, ha assunto i connotati di un partito radicale di massa e sforna proposte che inseguono ogni istanza individualistica per quanto riguarda la società ed è ormai il partito della grande finanza, dei “poteri forti” e della globalizzazione priva di valori come mostra chiaramente la distribuzione di voto nelle grandi città. A destra perché quella coalizione è attualmente dominata dalle istanze più estreme e populiste, con Fratelli d’Italia e la Meloni impegnati a raccattare ogni voto utile derivante da una opposizione mai costruttiva, che tende a solleticare le tendenze più becere e populiste, e la Lega di Salvini che è un partito in piena evoluzione, che non ha ancora deciso se inseguire la Meloni o dare una sterzata al centro, come vorrebbero Giorgetti e alcuni governatori, tale da portarlo stabilmente nell’orbita del Partito Popolare Europeo. La destra attuale si caratterizza però, almeno a parole, per una posizione più “attenta e accogliente” rispetto a valori come la vita e la famiglia, cari ai cattolici. Se debbo dirla tutta penso che i cattolici debbano guardare con molto interesse alla possibilità, con una legge elettorale proporzionale, di far nascere un soggetto moderato autonomo e laico tale da accogliere coloro che si riconoscono in alcuni valori attorno ai quali si possa fondare la rinascita del paese: la solidarietà, la comunità, la famiglia, l’economia sociale di mercato, uno forte sentimento di appartenenza nazionale non disgiunto dalla necessità di portare a compimento la costruzione di una Europa dei popoli con la riscoperta dei valori che hanno ispirato i suoi fondatori. Qualora invece la legge elettorale “costringa” alla attuale configurazione maggioritaria ritengo invece che un soggetto politico di questo tipo debba contribuire con chiarezza a costruire quella parte “centrista” del centrodestra che, insieme a tutta quella grande parte degli italiani che hanno votato Forza Italia, sposti gli equilibri della coalizione rendendo trainante la sua componente moderata. In un caso e nell’altro questo soggetto politico deve essere saldamente ancorato al Partito Popolare Europeo e contribuire alla sua “rivitalizzazione valoriale”.

Torino, in questo senso, come altre volte, può essere un laboratorio politico?

Si è forse anche troppo mitizzato, pur non mancando elementi di verità nella diagnosi, questo ruolo d’avanguardia della città. Una città che oggi palesa il suo essere sfibrata e stanca. Un’ex capitale di molte cose che oggi è l’accostamento di almeno tre città (mi appoggio all’analisi-denuncia che da tempo l’arcivescovo Cesare Nosiglia propone sostanzialmente inascoltato, per estenderla): quella degli inclusi, quella degli esclusi e quella di chi si limita a fruirla (i pendolari sono “cittadini torinesi a tempo”, ma nessuno sembra considerarlo, perdendo forse l’unica opportunità data dalla discutibile riforma che ha sostituito la Provincia con la Città Metropolitana). Una città intrappolata da un Sistema che ne domina la narrazione, ma non è capace di leggerne i bisogni fino in fondo. Serve una scossa, non irrazionale come quella data con il voto a Chiara Appendino, un voto carpito agli esclusi per cercare scampoli di approvazione dagli insider. Per questo voterò convintamente il candidato civico Paolo Damilano, convinto che sia assai importante che le forze centriste sappiano anche essere centrali. Da esse, con il contributo di un civismo autentico e non collaterale alle logiche partitocratiche, può venire una consapevolezza dell’essere classe dirigente che consenta di vincere il governo e non solo le elezioni. Con i miei amici Popolari abbiamo fatto una scelta precisa e “di svolta”, una scelta che invitiamo i cattolici della città, portatori di tanta originalità nell’impegno sociale ma scarsamente incidenti dal punto di vista politico, a considerare e accogliere come opportunità da seguire.

Il Partito democratico e i suoi alleati, che lanciano un’opa sul mondo ecclesiale con candidati d’area appariscenti, va insomma abbandonato?

Io personalmente sono uscito dal Pd per coerenza quando è entrato nel gruppo del Pse al Parlamento Europeo (scelta successivamente suggellata da Renzi con l’ingresso definitivo nel Partito Socialista Europeo). Sciogliendo la Margherita per costruire il Pd avevamo votato all’unanimità una mozione che sosteneva che il Pd non avrebbe mai dovuto entrare nel Pse, pena la negazione del progetto su cui il Pd stava nascendo. Basta leggere il programma del Partito Socialista Europeo per comprendere che non è problematico ma antitetico rispetto ai valori fondanti la Dottrina Sociale della Chiesa e il Popolarismo ed è quindi invotabile da parte di un cattolico.

Non basta l’accoglienza in lista a questa o quella persona, il punto è l’agibilità reale per la nostra identità. Un’agibilità, anche a livello locale, che non vedo nei fatti. Al di là di qualche clericalismo benevolo e di sostegni dati a un’associazionismo visto se va bene come erogatore di servizi (se va male unicamente come miniera di consensi).

Foto Ansa

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