Mario Mauro è ministro della Difesa dal 28 aprile scorso. Nei primi sette mesi del suo mandato ha affrontato molti dibattiti sulle scelte strategiche della politica italiana per la Difesa.
Signor ministro, negli ultimi anni abbiamo assistito a cambiamenti nella strategia di Difesa dell’Italia. Da quale visione è guidata ora la nostra politica?
Fino al 1989 il nostro paese schierava due terzi delle sue forze armate in tre regioni del Nord-Est: Veneto, Trentino e Friuli. Si trattava di difendere quel confine nell’ipotesi di una crisi bellica fra la Nato e il Patto di Varsavia. Oggi le regioni con la maggiore presenza militare sono Sicilia, Puglia e Campania. Finito il confronto Est-Ovest, la collocazione naturale nel centro del Mediterraneo fanno dell’Italia un soggetto strategico, all’interno dell’Alleanza atlantica, per il contrasto all’instabilità nei paesi del Nordafrica e del Medio Oriente. La partecipazione italiana alle missioni internazionali va vista in quest’ottica. L’orizzonte della Difesa non è più tanto l’eventualità di una guerra fra Stati, quanto piuttosto operazioni di polizia internazionale che contribuiscono al contenimento dei conflitti e con ciò pongono le basi per il ripristino della pace.
Tuttavia le critiche alle missioni internazionali che vedono coinvolta l’Italia non sono affatto rare. I costi economici e umani sono noti, i benefici sembrano non vedersi.
Capisco che le missioni come quella in Afghanistan possano apparire controverse: siamo presenti dal 2003 e 10 anni possono sembrare tanti. Ma non dobbiamo dimenticare che nel cuore della civilissima Europa ci sono missioni d’interposizione come quella in Bosnia che dura da 20 anni e quella in Kosovo che è in corso da 15. Noi siamo presenti coi nostri uomini e mezzi in Libano nell’ambito della missione Unifil da 34 anni, perché i tempi e i modi di una logica di interposizione non possono essere decisi a tavolino. Semplicemente la comunità internazionale si sente impegnata ad assumersi la responsabilità del destino di quei popoli e di quelle nazioni per evitare al mondo guai peggiori. Noi abbiamo perso 54 uomini in Afghanistan e abbiamo avuto molti feriti: una perdita inestimabile, perché la vita umana non ha prezzo. Ma forse dovremmo anche ricordare che quando è cominciata Isaf in Afghanistan c’erano solo 800 mila studenti, tutti maschi; oggi ce ne sono quasi 9 milioni e il 40 per cento sono donne. Non abbiamo soltanto lottato contro il terrorismo, ma anche creato le condizioni di sicurezza per lo sviluppo di quel paese.
L’articolo 11 della Costituzione dice che l’Italia ripudia la guerra come mezzo per la risoluzione delle controversie internazionali e che consente alle limitazioni della sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni. Come si traduce nel concreto il dettato costituzionale?
Partecipando alle missioni di peace-keeping l’Italia adempie al mandato costituzionale. Questo modo di intervenire nei conflitti è legato a una filosofia molto concreta: attraverso un’azione di deterrenza si mira a impedire ripercussioni ancora più gravi per le popolazioni civili. Ciclicamente ci troviamo a chiederci: vale la pena morire per Kabul? Per Beirut? Per Sarajevo? Noi sappiamo che laddove le azioni di deterrenza non sono state condotte, come a Srebrenica o in Ruanda, il costo in termini di vite umane perdute è stato sovente molto più grande di quello che sarebbe avvenuto con un intervento. Allo stesso tempo dobbiamo essere consapevoli che nel momento in cui decidiamo di intervenire ci devono essere tutte le condizioni possibili perché l’intervento contenga il conflitto e non lo faccia invece dilagare.
Cosa significa e cosa comporta essere ministri della Difesa in tempi di ristrettezza della finanza pubblica?
Se stiamo ai dati del Sipri, l’organismo indipendente con sede a Stoccolma che misura i bilanci della Difesa su scala globale, noi sappiamo che negli ultimi dieci anni quelli dei paesi europei hanno subito un’erosione che oscilla fra l’1 e il 3 per cento. L’Italia rappresenta un’eccezione: nello stesso periodo ha tagliato il proprio bilancio della Difesa del 19 per cento. Dunque la crisi economica sta mettendo in difficoltà non solo gli investimenti sul lungo periodo tipici della Difesa, ma la possibilità stessa di rinnovare il parco tecnologico dei sistemi d’arma. Il problema è che su 60 navi della Marina italiana, entro 10 anni 47 andranno in pensione. Gran parte degli aerei dell’aeronautica militare dovranno essere dismessi nel giro di pochi anni. Non si tratta di avere più armi, ma di consentire il mantenimento di una forza armata efficiente per difendere il paese e garantire la funzione essenziale della Difesa.
È possibile oggi un dibattito pubblico sulla Difesa e sulle spese militari totalmente trasparente e totalmente democratico nel nostro paese? A quali condizioni?
È possibile perché è garantito dalle leggi vigenti, alle quali nella scorsa legislatura si è aggiunta la 244, le quali impongono che tutto quello che è norma relativa all’attività della Difesa subisca il vaglio reiterato del Parlamento, al quale spetta la determinazione degli orientamenti politici nell’ambito della Difesa e il controllo sistematico delle spese. Al governo e allo Stato maggiore della Difesa spetta nient’altro che di attuare in fase esecutiva gli orientamenti delle nostre assisi democratiche. A ciò servirebbe affiancare un grande dibattito culturale sui princìpi della homeland security. Questo dibattito sarebbe senz’altro auspicabile, soprattutto se consideriamo che le forze armate sono probabilmente la più grande agenzia umanitaria italiana. Pensiamo alle 120 mila persone salvate in mare dalla marina militare e dall’aeronautica negli ultimi dieci anni. Agli interventi delle nostre forze armate in chiave umanitaria ieri ad Haiti e oggi in Sardegna e nelle Filippine. Al supporto logistico offerto alla giornata della Colletta alimentare. Davvero le forze armate sono la più grande organizzazione umanitaria italiana.
Il Consiglio europeo del 19 e 20 dicembre avrà all’ordine del giorno la politica di difesa e sicurezza comune europea. Cosa si aspetta?
Tutti i paesi europei, Italia in testa, stanno procedendo a tagli del bilancio, ma se prendiamo la spesa globale per la Difesa dei paesi dell’Unione Europea, essa è superiore a quella di Russia, Cina e Giappone sommate insieme. Facciamo spese che potrebbero essere evitate con le economie di scala e facciamo tagli che ci privano di capacità strategiche perché ognuno fa fronte ai propri bisogni organizzando la difesa su scala nazionale. Dal Consiglio europeo di dicembre mi aspetto una grande assunzione di responsabilità e di volontà politica che chiarisca che si intende procedere in tempi spediti per un’integrazione europea nel settore della Difesa. Mi aspetto anche che si deliberi di utilizzare i fondi per la ricerca e l’innovazione tecnologica anche per quei settori della Difesa che hanno ricadute nella vita civile. In un momento di grande difficoltà economica dell’Europa destinare fondi per la ricerca sui segmenti cosiddetti dual use, cioè che sviluppano tecnologie di uso militare e civile insieme, può fare da traino per la nostra industria e per i nostri settori ad alta innovazione tecnologica.