Indonesia, terra di eterni sopravvissuti

Di Caterina Giojelli
02 Ottobre 2018
Ci sono i corpi di 34 ragazzini sepolti dal fango, la piccola con l'acqua alla gola, le grida da sotto le macerie. Ma c'è anche chi rischia la vita per mettere in salvo i sopravvissuti allo tsunami. Intervista a Yohanes Baskoro (Caritas Indonesia)
epa07061397 A mother and her baby wait to depart on a military plane at Mutiara Sis Al Jufri Airport in Palu, Central Sulawesi, Indonesia, 01 October 2018. According to reports, at least 844 people have died as a result of a series of powerful earthquakes that hit central Sulawesi on 28 September 2018 and triggered a tsunami. EPA/HOTLI SIMANJUNTAK

La mattina dell’1 ottobre il bilancio delle vittime ufficiali della costa dell’isola di Sulawesi inghiottita dallo tsunami era spaventoso: «844 morti, 632 feriti, 90 dispersi e 48.025 sfollati in 103 aree di evacuazione. Ma il numero delle vittime continua ad aumentare».

I CORPI DEI RAGAZZINI. Nelle ultime ore si parla di oltre 1.230 uccisi, di decine di persone ancora sepolte sotto le macerie dell’hotel Roa Roa di Palu, da dove per giorni si è sentito gridare «aiuto», dei corpi di 34 ragazzini sorpresi dall’onda di fango mentre si trovavano a pregare nella chiesa di Jonooge a Siri Biromaru, di 1.200 evasi in preda al panico da tre prigioni dell’isola, di sciacalli in azione e decine di orfani, della rabbia e disperazione di chi sta affrontando il quarto giorno senza cibo né acqua potabile: «Abbiamo fame», si sente gridare all’aeroporto preso d’assalto, mentre i soccorsi scavano le fosse comuni, fotografando i cadaveri per permetterne l’identificazione.

CENTRI IRRAGGIUNGIBILI. Yohanes Baskoro, responsabile di programmi di Caritas Indonesia racconta a tempi.it le ore terribili seguite al terremoto di magnitudo 7,5 che lo scorso venerdì ha squassato l’isola indonesiana scatenando uno tsunami con onde alte fino a sei metri. «Non siamo ancora riusciti a parlare con le migliaia di famiglie colpite, a raccogliere testimonianze dirette, non ancora. La nostra unica squadra ha difficoltà a raggiungere le città più colpite, Palu e Donggala. Ora tutte le agenzie umanitarie, i militari, i medici usano l’unica strada accessibile da Mamuju a Palu passando per Pasang Kayu e Donggala. Il nostro team ha iniziato a trasferirsi a Palu ieri mattina e rimane bloccato a Pasang Kayu, da Mamuju a Palu ci sono 500 chilometri. Hanno dovuto interrompere il loro viaggio la notte scorsa per motivi di sicurezza. È stato loro detto di andare a Palu seguendo il programma del convoglio con altre agenzie per evitare i saccheggi (parte un convoglio tre volte al giorno). Quindi, non abbiamo ancora immagini e testimonianze dirette raccolte sul campo».
Il vero problema, spiega Baskoro, è che non sono stati ancora ripristinati i collegamenti e non c’è copertura di segnale nella città di Palu, il che significa che «dobbiamo pazientare ancora uno o due giorni per riuscire a metterci in contatto con il nostro team Caritas che in queste ore sta operando nella diocesi cattolica di Makassar. Spero capirete la situazione, è davvero molto complicato qui».

I BAMBINI DELLO TSUNAMI. I soccorsi hanno appena trovato viva una ragazzina di 15 anni, ha resistito accanto alla mamma morta per tre giorni bloccata tra le macerie della sua casa con l’acqua fino al collo. Ma si calcolano circa due milioni e mezzo di persone coinvolte, 600 mila bambini senza cibo e riparo, molti di loro senza neanche più una famiglia e che non riescono a balbettare ai soccorsi che i nomi dei loro genitori. Baskoro racconta un popolo già sopravvissuto a terremoti e tsunami, al disastro di Aceh del 2004, quando onde alte trenta metri inghiottirono oltre 200.000 persone, il disastro naturale più letale della storia del XXI secolo.

ETERNI SOPRAVVISSUTI. Anche allora l’Indonesia fu il paese più colpito, «lavoreremo mano nella mano per recuperare i nostri cari e aiutare le persone colpite. Questo lo sappiamo fare. C’è un simbolo che rappresenta l’Indonesia oggi. Oltre al video terribile dell’onda che travolge Palu, dei soccorsi che scavano nel fango, gli hashtag, la corsa alla solidarietà in rete, c’è soprattutto il senso dello spirito di comunità che qui è molto forte». Gente che offre ai feriti tutto quello che gli è rimasto, viveri, acqua potabile, alberghi che aprono le porte. C’è il coraggio e la generosità di chi rischia la propria sopravvivenza per mettere in salvo la vita di chi è stato risparmiato dalle onde assassine.

Foto Ansa

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