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In questi giorni oscuri, ricordate che la Speranza cristiana non è “in qualcosa”, ma “in Qualcuno”

La riflessione di padre Piero Gheddo a partire dalla Spe Salvi di papa Benedetto XVI e l'esempio di Giuseppina Bakhita

Piero Gheddo
05/03/2013 - 10:30
Chiesa
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In questi giorni oscuri e tormentati sto rileggendo e meditando l’enciclica del nostro amato padre e Papa Benedetto “Spe salvi” (del 2007), per ritrovare anch’io, prete da 60 anni, la forza e la gioia della speranza cristiana. Sì, perché noi italiani, con tutte le sofferenze, i crimini, i fallimenti, le povertà che vediamo attorno a noi, manchiamo di speranza.
Siamo non solo preoccupati ma angosciati, pessimisti, a volte disperati o quasi. I nostri discorsi sono volti al peggio, i nostri giornali e telegiornali pare che non diano alcuna speranza di poter vedere la fine dei molti ingorghi di urgenze ed emergenze il cui la nostra cara Patria è precipitata.

E allora, ricorriamo ad una delle tre encicliche di Papa Benedetto che tratta proprio della Speranza. Il testo latino dell’enciclica inizia con queste parole: “Spe salvi facti sumus” (Nella speranza siamo stati salvati) e si riferisce alla prima enciclica “Deus Caritas est”, Dio è Amore, Dio ci ha creati e ci ama sempre, anche nella situazione drammatica in cui ci troviamo. “Spe salvi”  tratta il tema che la fede dà la speranza della Vita eterna con Dio, ma ci conforta e sostiene anche nella vita terrena in questo mondo. In altre parole: senza la speranza che Dio che è Amore dà all’uomo, l’uomo stesso non può vivere bene, perché, come scrive il Papa: “Solo quando il futuro è realtà positiva, diventa vivibile anche il presente… Chi ha speranza vive diversamente, gli è donata una vita nuova” (n. 2).

Il cristianesimo non è solo comunicazione della “Buona Notizia”, ma infusione della forza della Fede e della Speranza cristiana, che non è “in qualcosa”, ma “in Qualcuno”. E Papa Benedetto, per concretizzare queste parole, porta l’esempio del nostro Salvatore. Nel mondo in cui viveva Gesù vigeva la schiavitù. Le persone venivano comperate e vendute al mercato degli schiavi ed erano del tutto nelle mani dei loro padroni. Situazioni orrende, spaventose, certo molto peggiori della nostra. “Gesù Cristo – scrive Benedetto XVI  – non era Spartaco o Barabba, non era un combattente per una liberazione politica”. Anzi “è morto Egli stesso in Croce”; ma ci ha condotti all’“incontro con il Dio vivente e così l’incontro con una speranza che era più forte delle sofferenze della schiavitù e che per questo trasformava dal di dentro la vita e il mondo… Anche se le strutture esterne rimanevano le stesse, questo cambiava la società dal di dentro” (n. 4).

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L’enciclica cita anche l’esempio più attuale di Giuseppina Bakhita, nata nel 1869 nel Darfur, in Sudan. “All’età di nove anni – “Spe Salvi” (n. 3) – venne rapita da trafficanti di schiavi e venduta cinque volte sui mercati del Sudan. L’ultima volta era al servizio della madre e della moglie di un generale e ogni giorno veniva fustigata a sangue, per tutta la vita le rimasero sul corpo 144 cicatrici”. Nel 1882 è comperata dal console italiano Callisto Legnani. Aveva sempre avuto “padroni che la maltrattavano e la disprezzavano o, nel migliore dei casi, la consideravano una schiava utile. Ora però sente dire che esiste un Padrone al di sopra di tutti i padroni, il Signore di tutti i Signori, e che questo Signore è buono, è la bontà in persona e che ama anche lei. Anche lei è amata, e proprio dal Padrone supremo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi stessi soltanto miseri servi”.

Così Bakhita scopre la Speranza cristiana e quando Legnani torna in Italia, la ragazzina gli chiede di portare anche lei nel suo paese. Così arriva a Venezia ed è affidata alle Suore Canossiane, che la curano, le vogliono bene e la educano nella Fede cristiana. Battezzata nel 1890, diventa suora Canossiana nel 1896. Muore a Schio (Vicenza) l’8 febbraio 1947, dopo una lunga e dolorosa malattia. E’ canonizzata nel 2000 da Giovanni Paolo II.

Benedetto XVI conclude che Bakhita, “cercò in vari viaggi in Italia soprattutto di sollecitare alla missione. La liberazione che aveva ricevuto mediante l’incontro con il Dio di Gesù Cristo, sentiva di doverla estendere, doveva essere donata anche ad altri, al maggior numero possibile. La speranza che era nata in lei e l’aveva redenta, non poteva tenerla per sé questa speranza, doveva raggiungere molti, raggiungere tutti”. Speriamo, e preghiamo, che raggiunga anche tutti noi italiani e ci ridoni il sorriso e la Speranza di un futuro migliore. Per noi uomini è difficile, ma nulla è impossibile a Dio.

dal sito di Piero Gheddo

Tags: Benedetto XVIDarfurGiovanni Paolo IIpiero gheddoSpe salvisudan
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