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In cammino sulle tracce di Cristo. Trent’anni dopo il pellegrinaggio di don Giussani

Fra il 16 e il 23 settembre 44 persone hanno preso parte al pellegrinaggio in Terra Santa promosso da Tempi e dall’agenzia di viaggi Istoria. Ecco cosa è successo

Giuliana Ruggieri
04/10/2016 - 1:00
Chiesa
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pellegrinaggio-giussani-tempi

Fra il 16 e il 23 settembre 44 persone hanno preso parte al pellegrinaggio in Terra Santa promosso da Tempi e dall’agenzia di viaggi Istoria, ispirato a quello che 30 anni fa fu guidato dal servo di Dio mons. Luigi Giussani. Come allora, il cammino si è svolto sotto il titolo “Sulle tracce di Cristo”. Una delle partecipanti racconta l’esperienza di quegli otto giorni.

“Verbum caro hic factum est”. Nazareth, grotta dell’Annunciazione: tutto, tutto è iniziato lì, e lì inizia anche il nostro pellegrinaggio. Come ci ha detto don Alberto Frigerio, che guidava il nostro cammino, lì la libertà di Dio ha incontrato la libertà umana, in un percorso cominciato con Abramo, culminato in Maria e giunto fino a noi per trasfigurare la nostra vita, per il bene nostro e di tutto il mondo. Esistere significa essere in cammino, ci si mette in cammino per chiedere a Dio di sostenere la strada per noi e per i nostri amici.

Ci siamo mossi sulle tracce di Cristo, cioè della concretezza del Mistero, cominciando da Cana, dove lui trasformò l’acqua in vino alle nozze. Poi il lago di Tiberiade, dove ha pescato con e per i suoi amici, ha trascorso molti giorni “approfittando dell’ospitalità” della suocera di Pietro a Cafarnao, ha guarito il paralitico calato dal tetto, ha continuato a camminare con i suoi, ha arrostito del pesce per i discepoli, fino alla domanda radicale rivolta a Pietro: «Mi ami tu?».

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Dalla familiarità con Cristo, nasce una moralità nuova, quella annunciata sul monte delle Beatitudini, altra tappa del nostro peregrinare: “Beati i poveri di Spirito, beati i miti…”. Ci dice don Alberto che «Gesù non si limita a dare un’indicazione morale, ma ci offre un ritratto di sé, consentendo ad ognuno di noi di immergerci in Lui e quindi di intraprendere un cammino morale». Ci dice “duc in altum”, “prendi il largo”, certi che l’avvenimento che ha investito la nostra vita è per il bene nostro e del mondo intero.

A Magdala, sempre sulle rive del lago di Tiberiade, nella meravigliosa chiesa “Duc in Altum”, illustrata in maniera eccellente da Massimo Giuliani, l’altare ha la forma di una barca ed è preceduta da un bellissimo portico, che richiama quello a noi caro, il portico di Salomone dove i primi cristiani si incontravano, abbiamo celebrato la Santa Messa. Ognuno è stato aiutato a guardare e a porre il suo cuore all’origine della Bellezza e quella barca ci ha ricordato che è la Chiesa, la Barca di Pietro, che ci tocca nella nostra compagnia, il luogo dove permane il Mistero.

Ci ha ricordato che il Signore Gesù è una Presenza da seguire qui e ora, nella storicità, nel mistero della Chiesa, ed è la cosa che ha affascinato tanti di noi incontrando l’esperienza di Comunione e Liberazione. Questa esperienza continua potentemente nella comunione dei “suoi”. In questi luoghi dove Gesù ha vissuto tutto questo assume un’intensità a cui nessuno può sottrarsi. Continuando verso San Giovanni d’Acri, ultima capitale del regno crociato dopo la caduta di Gerusalemme, ci è apparso chiaramente che la nostra fede si fonda su fatti storici e se si mettono in dubbio questi fatti, questi luoghi, che ne conservano la memoria, se si mettono in pericolo gli avvenimenti che riguardano la vita di Gesù, si mette in pericolo la Fede. Proseguendo poi fino a Cesarea, nel meraviglioso anfiteatro romano a due passi dal Mediterraneo, è esploso il nostro canto: “Non nobis Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam!”.

Non è mancata la santa Messa nel deserto di Giuda, sul lato opposto della gola in cui è incastonato il monastero ortodosso di San Giorgio, che poi abbiamo raggiunto a piedi, sotto un sole abbacinante. E il ritorno per molti in groppa ad un asinello beduino, come Gesù, Giuseppe e Maria. A Gerico breve sosta fotografica al “Sicomoro di Zaccheo”, dove una pianta della stessa famiglia è cresciuta sul punto dove si trovava il sicomoro originale. Ci risuonavano nel cuore le parole di don Giussani quando ci parlava di quel piccolo uomo, basso di statura, che voleva vedere il Messia, e che da lui fu guardato in un modo tale che gli cambiò la vita. Il pomeriggio abbiamo concluso la giornata da turisti con un bagno nel Mar Morto, a galleggiare in mezzo metro d’acqua e a coprirsi di fanghi terapeutici.

A Betlemme Messa all’alba nella grotta della Natività. Don Alberto ha accompagnato la nostra meditazione: “Gesù, l’uomo che è nato qui, ha una origine divina. Il Cristianesimo è un evento, è un avvenimento che è accaduto in un luogo preciso, fissiamo il nostro sguardo sull’Emmanuele, il Dio con noi”. Il canto della nostra amica Anna Tedaldi, rotto dalla commozione, ha concluso il gesto: “Alleluia! Il giusto germoglierà e fiorirà come un giglio davanti al Signore in eterno! Alleluia”. Alla sera Gianmarco Piacenti, amico di Angelina Familiari nostra compagna di pellegrinaggio, ci ha raccontato del suo lavoro nella Basilica della Natività, oggetto della mostra all’ultimo Meeting di Rimini. Un appalto ottenuto contro tutte le aspettative: per una volta l’orgoglio di essere italiani. Infine Gerusalemme, la città santa. Un canto è sorto fra noi alla vista della città: «Gerusalemme… Oh, che gioia quando mi dissero: “Andiamo alla casa del Signore!”. Siamo giunti, abbiamo fatto sosta davanti alle tue porte».

Tutto per noi inizia nella “Dominus Flevit”, una piccola chiesetta sul monte degli Ulivi dove dalla vetrata si vede la città santa, come la vide Gesù che pianse, pianse anche lui sul male del mondo e sul destino della città. Ci scuote una citazione di Eliot richiamata da don Alberto: «Bestiali, carnali come sempre, ma mai seguendo altra via». Qui abbiamo celebrato la Santa Messa. Poi l’Orto degli ulivi, la roccia di fronte all’altare nella chiesa del Getsemani, luogo dell’agonia di Gesù. Qui Gesù ha sudato sangue, ha caricato su di sé il nostro male, il nostro peccato. «Signore, pietà» è il grido che ci portiamo dentro, ammutoliti dal mistero di quel sacrificio. Infine la Via dolorosa. L’abbiamo percorsa dietro a una croce, comprata in un negozietto della città vecchia. Nella nostra via crucis, quella croce inaspettatamente si è riempita di volti, di nomi corrispondenti al dolore che tutti i nostri compagni di viaggio si portavano nel cuore: Chiara, Giuseppe, i martiri cristiani (la presenza di Rodolfo Casadei faceva fare memoria continuamente a tutti noi di questa tragedia) e si è riempita di luoghi: Aleppo, la Siria, la Palestina, le nostre tribolate città, il nostro paese.

Abbiamo ricordato le parole di don Giussani: «Non c’è più obiezione al sacrificio da quando il Signore è morto. Non è da solo che Cristo salva il mondo, ma è con l’adesione di ognuno di noi alla sofferenza e alla croce. Lo dice San Paolo: “Io compio nella mia carne d’ uomo i sacrifici che mancano alla croce di Cristo”. Maria fa sì che la nostra offerta, l’offerta della nostra vita, aiuti il povero mondo ad arricchirsi nella conoscenza di Cristo e a gioire nell’amore a Cristo».

La sera Rodolfo Casadei ci ha raccontato del suo ultimo reportage in Armenia e nel Nagorno Karabakh, un benefico allargamento di orizzonte. A Gerusalemme i luoghi che più riempiono di dolore sono il Cenacolo e il Santo Sepolcro. La visita al Cenacolo provoca dolore perché si tratta del luogo dove fu istituita l’Eucarestia, il fondamento di tutta la Chiesa, dove ebbe luogo la Pentecoste, dove Tommaso manifestò la sua incredulità. Ma oggi è quasi completamente monopolizzato dagli Ebrei, dopo che nei secoli è stato completamente sfigurato dai musulmani. Sopravvivono due particolari cristiani, due segni importanti non riconosciuti: una piccola scultura raffigurante un agnello nel soffitto e l’immagine dei pellicani, in un capitello. Il pellicano rappresenta Cristo che dona il proprio corpo come cibo e il proprio sangue, così appunto come secondo una antica leggenda quell’uccello nutriva i suoi piccoli con la propria carne ed il proprio sangue.

Al Santo Sepolcro, a causa del regime dello status quo, sono concessi solo pochi minuti per sostare davanti ai luoghi più decisivi per la nostra vita, pochi minuti al Calvario e nel sepolcro vuoto. È difficile pregare, ma offriamo il nostro dolore. Non è possibile fare nessun canto. Anna ci avrebbe davvero aiutato, come sempre con la sua splendida voce rotta più volte dalla commozione. La visita a Gerusalemme non poteva che concludersi con la visita al Muro del pianto o Muro occidentale introdotta dalla lettura delle parole drammaticamente vere di don Giussani nel libro di Luigi Amicone Sulle tracce di Cristo. Piccolo episodio di ingenuità: pensavamo di poter entrare nella piazza con la nostra vistosa croce, utilizzata per la via crucis. L’equivoco è presto chiarito e la croce finisce sapientemente nascosta dalla felpa di don Alberto.

Nel nostro pellegrinaggio abbiamo incontrato anche “le pietre vive”, come le chiama Sua Beatitudine mons. Fouad Twal, patriarca emerito di Gerusalemme, cioè i cristiani di Terra Santa. La “pietra viva” con cui abbiamo trascorso più tempo è stata senz’altro la nostra guida locale, una persona davvero speciale, Osama Mattar, un cristiano palestinese che ci ha donato davvero gli occhi e il cuore con cui guardare. Abbiamo incontrato poi Vincenzo, un siciliano che vive da 10 anni a Betlemme, sposato con una palestinese, punto di riferimento per tutti i cristiani che vivono lì. E l’argentino padre Ricardo custode di Betlemme da 12 anni, che ci ha salutato dicendoci “Benvenuti a casa”. Ci hanno raccontato le difficoltà dei nostri fratelli cristiani che sono una minoranza nella minoranza, e che stanno abbandonando questi luoghi. E poi i bambini. Un piccolo musulmano di soli 9 anni, Adel, orfano di madre, veniva a trovarci tutte le sere indossando la tutina nuova fiammante che gli avevamo regalato. L’abbiamo anche portato a cena con noi in un bel ristorante tipico di Betlemme. Ora l’abbiamo affidato a Vincenzo, nella speranza di un futuro per lui: per tutti occorre essere padri e madri. Ci hanno colpito soprattutto la tenerezza e i sorrisi che Adel scambiava con don Alberto e con Angelina…

Ancora la nostra amica Grazia Ribatti ha potuto incontrare Lamitta e Dilaya, le due bambine che sostiene da anni con l’adozione a distanza. In aeroporto prima di partire abbiamo incontrato Iuri, un ebreo di origini iraniane, un imprenditore che conosce dieci lingue e vive in Israele da tanti anni, ma non vede più un futuro nella terra di Israele per i suoi figli. Questa cosa mi ha colpito tantissimo. Le scelte di Israele, diceva lui, stanno diventando sempre più radicali e forse la possibilità di una pace reale si allontana sempre di più per tutti. Tornando a casa un messaggio nel cellulare da parte di Luisanna mi colpisce, la sua ironia è travolgente come sempre: «Abbiamo lasciato la Gerusalemme celeste e siamo ritornati nella Gerusalemme terrena della nostra quotidianità. Ho il cuore traboccante di gioia e già pieno di nostalgia di voi mentre avvio la seconda lavatrice».

Sì, questo pellegrinaggio ci ha fatto incontrare un pezzo splendido di popolo di Comunione e Liberazione, ma anche amici nuovi come Francesco e Dori, venuti con noi perché iscritti al pellegrinaggio dai loro figli che partecipano al movimento. Molti di questi pellegrini erano segnati da esperienze dolorose: figli e nipoti ammalati. E pensando al fatto che siamo famiglie nate intorno a don Giussani, abbiamo visto in questo il tocco del Mistero, del Nazareno, un segno di una storia preziosa agli occhi di Cristo e della Chiesa, un regalo al mondo ed alla sua Chiesa. Infine non si può omettere di ricordare che molte famiglie festeggiavano con questo pellegrinaggio l’anniversario del loro matrimonio, grati di una fedeltà e di un cammino comune.

Tags: Comunione e LiberazioneLuigi AmiconeLuigi Giussanipellegrinaggiosulle tracce di cristoterra santa
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