Il vero lavoro è quello che si fa gratis
Articolo tratto dallo speciale dedicato al senso del lavoro nel numero di Tempi di giugno 2019.
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La Bibbia nei primi capitoli della Genesi racconta la creazione del mondo. Dio creò il cielo, le acque del mare e dei fiumi, la terra, le piante, gli animali e alla fine l’uomo e la donna, cui diede il possesso di tutto nel giardino dell’Eden. Solo comandò loro di non mangiare dell’albero della scienza del bene e del male, perché questa non spettava a loro, che erano creature, esseri dipendenti non in grado di decidere ciò che è giusto o sbagliato nella natura loro e di ciò che esiste. La donna e l’uomo cedettero alla tentazione del demonio che li convinse a mangiare dell’albero proibito perché così sarebbero diventati come Dio, onnipotenti nella loro autonomia. Dio rispettò la loro scelta e li lasciò al loro destino di creature, che avevano voluto essere padrone di sé: alla donna disse che avrebbe partorito con dolore e all’uomo che avrebbe lavorato con il sudore della fronte. I due atti più definitivamente espressivi della creatività umana da allora, quindi dall’inizio, sono stati gravati dal limite di una creatura che non può farsi creatore.
Qualunque cosa uno pensi del racconto biblico e di Dio non può negare che la situazione stia effettivamente così. Ai superficiali che ricordano come oggi sia stata introdotta l’epidurale per annullare il dolore del parto, basti ricordare che la sofferenza della generazione non è riducibile al dolore fisico, che comunque poco o tanto permane, ma è ben altro e di più.
Un diritto alla base della società
Veniamo al lavoro, che è l’argomento di questo servizio di Tempi. Secondo la Bibbia due sue caratteristiche fondamentali sono la necessità e la fatica. L’uomo – e, ovviamente, anche la donna – non può non lavorare. La realtà non l’ha fatta lui e questa, pur mostrando ultimamente – che vuol dire alla fine di un percorso e una conoscenza non scontate, né facili – di corrispondere alle attese e ai desideri, va per conto suo; se non la si trasforma e adatta ai bisogni, addirittura può uccidere – terremoti, bestie feroci, piante carnivore e via disgraziando. L’uomo, per ricomporre l’armonia tra sé, le persone e le cose, deve accettare un impegno in cui consuma letteralmente la vita. L’agognata felicità ha un costo, le cui scadenze possono essere posticipate ed eluse, ma mai eliminate. È vero che per molti il lavoro è un posto in cui si cerca di fare il meno possibile, ma è altrettanto vero che questa fuga viene pagata con un asfissiante nonsenso e rassegnazione. Rimane la pensione per essere finalmente liberi e mantenuti, ma si può non sapere cosa si cerca o non avere i mezzi per ottenerlo. Bisogna accontentarsi di un godimento che appare sempre scarso, tanto nel presente, quanto nel passato. In svariate indagini sui pensionati, alla domanda “cosa ti manca del lavoro” la risposta è frequentemente “nulla” e qualche volta “i miei compagni”: poco prima e poco adesso!
Le ultime osservazioni mettono in evidenza che la necessità del lavoro non è determinata solamente dai rapporti materiali con la realtà, ma è anche una esigenza per così dire spirituale, ovvero proveniente dalla ragione e dalla libertà delle persone. Non è secondario che pur essendo il lavoro fatica, tutti o quasi tutti lo cerchino, al punto di individuarlo come diritto e come base della società. Per esempio l’articolo 1 della nostra Costituzione stabilisce che «l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro», intendendo molto di più del fatto che bisogna lavorare per vivere. Il lavoro è questo, ma è soprattutto fattore di protagonismo sociale, che giustifica il ruolo e i diritti che l’individuo ha nella convivenza civile. Infatti pare che una prima formulazione proposta ai padri costituenti fosse «l’Italia è una repubblica democratica fondata sui lavoratori», di chiara ispirazione socialista, che confonde il mezzo – il lavoro, appunto – con il fine – la dignità e la felicità dell’uomo.
Fino alle stelle
A tale proposito risulta notevole la differenza con il passaggio centrale della Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti: «Noi teniamo per certo che queste verità siano di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono creati eguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di certi Diritti inalienabili, che tra questi vi siano la Vita, la Libertà ed il Perseguimento della Felicità». È a causa di queste “verità” che gli uomini si mettono al lavoro, per realizzare i doni della loro esistenza, dati originalmente da Dio e non dalla loro attività, pur essenziale per poterne godere effettivamente.
Per farci un’idea più chiara del lavoro pensiamo appunto ai coloni americani che andavano verso le terre selvagge del “lontano ovest”. Perché ci andavano, mettendo a rischio la vita propria e delle loro famiglie? Per la speranza di una esistenza migliore. Una volta arrivati, non potevano non lavorare, trasformare la foresta ostile in un terreno coltivato rispondente alle loro esigenze, che oltre al nutrimento e la casa, erano la letizia con la propria famiglia e i compagni di avventura. Nessuno li pagava per questo. Era un lavoro ineliminabile e gratuito per affermare il senso della vita, che non è un caso, ma è profondamente connessa a tutto quello che c’è, fino alle stelle.
Di più, il significato della vita è di essere voluta e amata in un cammino comune al destino, allo scopo di tutto; cammino che si chiama amicizia. Questo è il respiro che ha fatto sorgere le opere e le società, che testimonia la capacità creativa degli uomini a imitazione di chi li ha fatti. Questo è il respiro che fa sì che il lavoro venga stimato come diritto e venga compensato con un salario che concorre al benessere personale e delle famiglie. Ma il guadagno e il profitto non sono lo scopo del lavoro. Sono indicatori di efficienza e capacità. Lo scopo del lavoro è, con una parola grande, la felicità che si può compiere solo nella amicizia con le cose e le persone. E se lo scopo è questo, bisogna notare che difficilmente siamo pagati per essere felici; se mai ci viene chiesto di rendere felici quelli che ci pagano. Il lavoro per la propria felicità, cioè il lavoro tout court, non può che essere gratuito.
Un autentico sacrificio
A questo punto possono essere utili due ulteriori notazioni.
Se lo scopo del lavoro è l’amicizia, il bene per sé e il prossimo, c’è la necessità di dissodare oltre che la terra, i rapporti, liberandoli dalla estraneità e dalla scontrosità che sono così usuali non solo negli ambienti di lavoro. C’è da fare un lavoro nel lavoro così da creare un ambiente – di fraternità – nell’ambiente. Anche questo è un impegno gratuito, di cui non si può fare meno se si vuole non solo lavorare, ma vivere contenti. A questo punto il nome proprio della fatica diventa sacrificio, dal latino sacrum facere, ovvero tendere a un risultato che sia sacro, secondo verità, secondo Dio. Rinuncia e mortificazione, che pure sono aspetti inevitabili del sacrificio, vengono come conseguenza dell’amare la verità più di se stessi, perché solo la verità ci permette di essere noi stessi. La fatica – la fatica del lavoro – così ha finalmente uno scopo, che è quello di collaborare alla redenzione del mondo, per la propria e altrui realizzazione, o letizia, o pace, che, come diceva Charles Péguy, in parti eguali di dolore e gioia è fatta. Niente di sentimentale: una vita e un lavoro, che possono essere duri, ma che valgono la pena.
È incontestabile che molto di quello che facciamo, incluso il lavoro, anzi soprattutto il lavoro, lo facciamo per essere stimati, o, meglio, per essere amati. Non è sbagliato, perché non possiamo chiedere agli altri di volerci bene senza uno sforzo da parte nostra, ma è parziale e alla fine può diventare un ricatto nei confronti degli altri e di noi stessi; addirittura può tradursi in uno scoraggiamento, in una svalutazione di sé, del proprio impegno e delle sue ragioni. Questa depressione, per quanto non patologica, della personalità è diffusissima ed è il motivo prevalente della presa di distanze dal lavoro e della mancanza di iniziativa. Essere voluti bene è quello a cui teniamo di più; anche se non ci pensiamo, è la molla che anima la maggior parte delle nostre azioni. Proviamo allora a pensare quanto potrebbe essere più libero, efficace e resistente il lavoro di chi sa di essere amato prima dei risultati che può raggiungere. Amare ed essere amati non solo realizza l’aspettativa della vita, ne cambia il colore e la prospettiva; anche il lavoro più duro diventa opportunità per un protagonismo che è dato in partenza e che l’insuccesso e la difficoltà non possono eliminare.
Il titolo di un Meeting di Rimini di qualche anno fa fu “O protagonisti, o nessuno”. Per essere protagonisti durevoli, cioè veri, è necessario un amore indefettibile, che ci voglia e ci chiami a un compito, che può essere svolto da noi e da nessun altro. È necessario Dio e la vocazione che rivolge a noi, che giustifica il nostro lavoro, tanto da farci lavorare gratis, sempre; come abbiamo visto, anche nel lavoro per cui siamo pagati. Scopo, affermare e approfondire il senso della vita, senza di che la vita non serve a nulla.
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