
La preghiera del mattino
Il ruolo anomalo del Quirinale è un problema eccome

Su Huffington Post Italia Ugo Magri scrive: «Non è chiaro perché proprio adesso, all’inizio della sua avventura da premier e con mille grane su cui concentrarsi, Giorgia Meloni sia andata a riaprire il cantiere più inconcludente e noioso dell’ultimo mezzo secolo: le riforme costituzionali. Davanti a Palazzo Chigi non ci sono i tumulti né folle scatenate che invocano una repubblica presidenziale. Tantomeno l’Italia è vittima di quei traumi, tipo una guerra persa o un crollo di regime, da cui si emerge cambiando sistema: per fortuna non c’è traccia di eventi così drammatici».
Nel ’92 lo strabordare dei poteri della magistratura ha destrutturato il sistema politico nato dalla Resistenza, nel 2011 è iniziato un decennio di commissariamento della politica italiana che si è (per ora) concluso con il governo Meloni, ogni valutazione della gestione del Pnrr mette innanzi tutto in evidenza la crisi decisionale e realizzatrice del sistema delle autonomie e del decentramento. Trovo spesso acute le osservazioni e le analisi di Ugo Magri, ma il suo non cogliere la drammatica crisi dello Stato italiano mi spinge a chiedermi se viviamo nello stesso paese.
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Su Formiche il professor Antonio Barone, ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università di Catania, dice: «La legge Delrio ha avviato un percorso di sostanziale ridimensionamento delle funzioni dell’ente provincia, ridisegnato come ente di secondo grado privo di rappresentanza diretta delle proprie comunità di riferimento. Proprio per questo la legge risulta legata a filo doppio con la successiva riforma costituzionale dell’aprile 2016, che prevedeva addirittura l’abolizione delle province. Come è noto, con il referendum costituzionale del dicembre 2016 i cittadini italiani hanno bocciato il progetto di riforma costituzionale. Si è quindi verificato una sorta di cortocircuito: la legge Delrio, sopravvissuta ad una riforma costituzionale mai entrata in vigore, si confronta ormai con l’immutata dimensione costituzionale della provincia quale ente territoriale esponenziale degli interessi dei cittadini. Questo cortocircuito è evidente almeno sotto due punti di vista. Anzitutto, la legge ha trasformato gli enti di area vasta in enti di secondo grado, spezzando il meccanismo di rappresentanza democratica diretta (garantendo, semmai, una rappresentanza solo indiretta). Lo stesso deve dirsi per le città metropolitane, i cui meccanismi di rappresentanza sono stati recentemente oggetto di censura, seppur in via indiretta, da parte della Corte costituzionale (sentenza n. 240/2021). Altro profilo di criticità riguarda la questione della non sempre felice e chiara definizione delle funzioni fondamentali delle province, nonché la correlata tematica della riallocazione delle cosiddette funzioni non fondamentali degli enti provinciali, che la legge Delrio ha affidato anche alle regioni. Le leggi regionali attuative di queste previsioni sono tra loro assai disomogenee; in vari casi si è scelto di riallocare le funzioni provinciali addirittura a livello regionale, così avallando inediti modelli di neocentralismo regionale (segnalo al riguardo un interessante studio dell’Issirfa). La riforma del 2014 non è quindi riuscita a rispondere pienamente agli obiettivi di semplificazione amministrativa, di modernizzazione e di flessibilità ordinamentale che si prefiggeva di raggiungere».
Il professor Barone in forma paludata esprime una critica radicale alla riforma delle province fatta da Graziano Delrio, critico più o meno come Checco Zalone nel suo film Quo vado?. In sintesi: la riforma Delrio è una “fantozziana” boiata pazzesca. Siamo di fronte a uno dei tanti provvedimenti di riformismo istituzionale improvvisato, basato su slogan, invece che pensato criticamente riflettendo sull’insieme del sistema di rappresentanza, di autonomia e decentramento dello Stato italiano. Bisognerebbe evitare, rimettendo in questo senso le mani sul problema di un ente intermedio tra regioni e comuni, di fare scelte nuovamente improvvisate, ragionando invece se davvero ci servono un centinaio di province, se non ne bastano una trentina, e se la questione non vada collegata a un razionalizzazione delle Regioni che talvolta hanno dimensioni da una media provincia e in altri casi da medio Stato europeo.
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Su First online si scrive: «Semipresidenzialismo o premierato. La presidente del Consiglio intende puntare su una delle due opzioni. A 6 mesi dall’elezione del nuovo Parlamento, Giorgia Meloni ha intenzione di cominciare a intavolare le trattative che porteranno la maggioranza di centrodestra a mantenere una delle principali promesse fatte in campagna elettorale: una riforma costituzionale che dia maggiori poteri al presidente della Repubblica. Ma c’è anche una seconda opzione emersa nelle ultime ore: quella di rafforzare invece il ruolo del presidente del Consiglio non solo attraverso la sua elezione diretta, ma anche dando a Palazzo Chigi nuovi e maggiori poteri, tra i quali la sfiducia costruttiva. E non stupirebbe nessuno che il pragmatismo della premier finisca per capovolgere le sue iniziali opzioni e per orientarsi proprio verso il premierato senza mettere in discussione la figura di garanzia costituzionale del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che la premier non intende in nessun caso contrariare».
La discussione sulle riforme istituzionali è molto difficile perché si basa più sugli slogan che sull’analisi critica della realtà. Anche un sito di grande qualità come First online confonde la gratitudine che dobbiamo avere verso Sergio Mattarella, che ha cercato sempre di pacificare la società italiana nel contesto concreto in cui ha esercitato la sua presidenza, con una seria riflessione su che cosa ha rappresentato l’anomalo (rispetto agli altri sistemi liberaldemocratici) ruolo della presidenza della Repubblica, come è definito dalla nostra nella Costituzione. Il peso del Quirinale, derivato dalle norme costituzionali, non è stato solo notarile ma di regia della politica nazionale, con sue (pur ambigue) competenze in politica estera, caratteristiche che non corrispondono né ai tradizionali sistemi parlamentari né a una repubblica veramente presidenziale.
Il fatto è che la nostra Costituzione è stata definita in modo decisivo dal quadro della Guerra fredda che si stava delineando nel periodo in cui venne scritta. Al fondo il Quirinale è diventato un elemento di garanzia verso americani e Vaticano che un Parlamento, dove era così forte l’influenza comunista, non condizionasse eccessivamente le scelte internazionali essenziali. Questo compromesso, di fatto accettato da un Pci ben consapevole degli accordi di Yalta, ha senza dubbio contribuito a trasformare l’Italia in una delle grandi economie mondiali. Però il prezzo pagato è stata una fragilità della nostra democrazia, messa alla prova nel luglio del 1960, nella crisi attorno alle dimissioni di Antonio Segni, nelle vicende legate all’attentato di piazza Fontana, nel terrorismo brigatista che si concluse con l’assassinio di Aldo Moro, nell’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, fino all’anomalo ruolo assunto da settori della magistratura nel 1992: un percorso nella Prima Repubblica di rotture della normalità democratica che non ha paragoni con quel che è avvenuto nelle altre grandi nazioni europee. Certo ci fu la rottura del gollismo, ma questa portò a una soluzione dei fattori che l’avevano prodotta, non al suo trascinarsi nei decenni.
Alla fine ci si deve chiedere se oggi l’italiano anomalo ruolo del Quirinale (che forse era l’unica soluzione realistica durante la Guerra fredda) non sia, al di là della buona fede dei vari presidenti in carica, un fattore strutturale di destabilizzazione democratica con annesso eccesso di influenze straniere (rispetto alle altre democrazie europee) sul nostro sistema politico (e naturalmente economico), il tutto giustificato con un europeismo orwelliano nel quale, come nella nota “Fattoria”, alcuni animali sono più uguali di altri. Ecco perché modificare il ruolo della presidenza della Repubblica è rilevante.
La soluzione del premier come “sindaco d’Italia” non mi convince, ma almeno elimina la funzione di regia della politica nazionale da parte del Quirinale e questo è già un buon risultato. Perché però non possiamo avere un presidente garante della Costituzione, quindi con poteri da notaio e non da regista, eletto dal popolo come in Austria o in Portogallo, dove popoli saggi tendono a eleggere presidenti di un colore politico alternativo a quello del governo in carica?
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Su L’Occidentale Marco De Palma scrive: «“Il primo passo del governo è andato nella giusta direzione, verificare se c’è disponibilità da parte dell’opposizione a cambiare le regole insieme. La Costituzione si cambia se c’è un largo accordo, chi ha cercato di farlo da una posizione di parte non c’è riuscito. Se le forze politiche di opposizione si limitano a fare ostruzionismo, la maggioranza ha il diritto di provare ad andare fino in fondo”. Così Gaetano Quagliariello, presidente della Fondazione Magna Carta e già ministro per le Riforme costituzionali del governo Letta. “Se c’è un punto di caduta che si può trovare con l’opposizione, o con una parte consistente di essa, allora vale la pena privilegiare un percorso condiviso. Molte delle critiche al presidenzialismo”, avverte il presidente di Magna Carta, “non sono giuste. La decrescente centralità del Parlamento, a cui è corrisposta una crescente centralità della rete e dei social media, rende l’elezione diretta del presidente della Repubblica quasi un’operazione difensiva. Ma se le opposizioni non dovessero condividere questa visione e cercassero di convergere su un sistema che rafforzi l’esecutivo, ad esempio il cancellierato alla tedesca con sfiducia costruttiva, sarebbe un buon punto di partenza comune”. “Meglio fare le riforme insieme, anche se non sono esattamente quelle che corrispondono a una visione di parte, piuttosto che farle da soli spaccando il paese”, auspica Quagliariello. “In questo senso la Fondazione Magna Carta continua ad essere un laboratorio dove seguire il dibattito e favorire il dialogo”».
Pur ritenendo decisivo mettere mano alla parte ordinamentale della Costituzione, credo che si debba anche tener conto delle molto ragionevoli considerazioni di Quagliariello: la materia delle riforme costituzionali non va mai trattata con i toni della propaganda politica, va perseguita cercando il massimo consenso parlamentare e spiegando bene alla società non solo che cosa si vuole ottenere (ad esempio la stabilità e l’efficacia dell’azione dell’esecutivo) ma come questo obiettivo è perseguito senza mai mettere in pericolo i diritti dell’opposizione e dei cittadini nell’indirizzare la guida della nazione. In questo senso sarebbe molto utile illustrare bene e per prima cosa i problemi alla base delle scelte riformiste in modo da rendere poi più convincenti i modi per affrontare le soluzioni che si propongono.
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