«Il mio viaggio nell’inferno dei Khmer rossi»

Di Giuseppe Beltrame
22 Giugno 2025
Intervista esclusiva all'unica occidentale che "per amore" alla fine degli anni Settanta visse in Cambogia a stretto contatto con i dirigenti del regime comunista. «Di quale diabolica macchinazione ero stata complice?»
Museo del Genocidio della Cambogia
Un turista stupito di fronte alla mappa di teschi delle vittime dei Khmer Rossi nel Museo del genocidio della Cambogia a Phnom Penh, 21 dicembre 1999 (foto Ansa)

Una donna occidentale sola con le due figlie piccole, nell’impenetrabile Cambogia dei Khmer Rossi, racconta i cinque anni disumani che hanno segnato la sua esistenza. È la testimonianza unica nel suo genere di Laurence Picq contenuta nel libro edito a maggio da Tralerighe libri, per la cura di Marco Respinti e la traduzione di Nicoletta Prandoni: Oltre il cielo. I miei anni con i Khmer Rossi nella Cambogia del genocidio, 1975-1979. Si tratta della traduzione ampliata e aggiornata insieme all’autrice della prima edizione francese Au-delà du ciel. Cinq ans chez les Khmers rouges, pubblicata nel 1984 a Parigi da Éditions Bernard Barrault.

L’amore per Sikoeun

Picq fu l’unica occidentale a lavorare a stretto contatto con i dirigenti Khmer, «rappresentanti di quel comunismo spietato che eliminò in poco tempo almeno un milione e mezzo di cittadini (e forse più) con i più assurdi pretesti», come ricorda nel suo invito alla lettura all’inizio del testo Antonia Arslan.

La donna all’inizio degli anni Sessanta è una giovane francese di belle speranze e grandi ideali, nata da una modesta famiglia all’epoca del baby boom nel dipartimento dell’Oise. Dopo il liceo nei circoli marxisti parigini si innamora di Suong Sikoeun, cambogiano trasferitosi in Francia per motivi di studio come molti suoi connazionali – tra i quali anche il futuro dittatore Pol Pot. I due si sposano nel 1967 e Laurence decide di seguire il marito a Pechino, dove nel delirio della Rivoluzione culturale, comincia ad espandersi l’ideologia comunista che porterà all’affermazione degli Khmer Rossi in Cambogia, fino alla definitiva presa di Phnom Penh nel 1975, esattamente mezzo secolo fa.

Laurence Picq
Laurence Picq in uno scatto del 1984

Il “privilegio” della miseria

Laurence con le due figlie al seguito, Narèn e Sokha, si trasferisce nella capitale cambogiana al seguito di Sikoeun. È pronta ad aiutare la causa della rivoluzione dei “liberatori” che promette di costruire una società più giusta, un mondo nuovo capace di mettere tutti sullo stesso piano e di non lasciare indietro nessuno. Giunta in città, in breve, si materializza la tragedia.

Trascorre quasi quattro anni in un dipartimento del ministero degli Esteri, chiamato unità B-1, una struttura semi-abbandonata in cui centinaia di persone, “privilegiate” rispetto a coloro che vivevano nelle campagne, si mantengono con poco più di qualche pugno di riso al giorno. Laurence si adopera per aiutare in tutti i modi gli altri, sporcandosi le mani nei lavori agricoli, in cucina e impegnandosi negli uffici come traduttrice.

La microsocietà del dipartimento è costituita da uomini-automi in mano a una macchina senza nome, pronti a sacrificare ogni goccia di vita per la causa. I turni di lavoro sfiorano le diciassette ore quotidiane mentre il terrore si instilla sempre più nei cuori della popolazione. Scompaiono via via decine, poi centinaia, di persone “sospette” apparentemente senza motivo. A Laurence vengono sottratte le figlie per un lungo periodo per essere “educate” dal regime. Nei pochi momenti in cui può vederle, Narèn e Sokha la chiamano «zia», come è stato loro insegnato dalle educatrici. L’appellativo di «mamma» è riservato a tutte le altre donne della comunità, tranne che a lei.

La fuga disperata

Con il proseguire dei mesi anche il rapporto con il marito si complica, l’uomo sospetta di lei e finisce per evitarla, la considera un peso “succhia-risorse”. Sikoeun si rivela un uomo abietto, «sembrava quasi che volesse vedere i suoi familiari morire per il partito» scriverà la stessa Picq. La donna progressivamente viene emarginata anche da molti cambogiani che vedono con sospetto la sua origine occidentale. Fino a che, all’improvviso, la quotidianità dell’unità B-1 viene stravolta dall’attacco dei vietnamiti a Phnom Penh. Laurence, che nel frattempo è rimasta incinta, deve lasciare in fretta e furia la struttura insieme alle due figlie con un gruppo di funzionari Khmer.

Comincia un’odissea di centinaia di chilometri a piedi che le porta fino al confine con la Thailandia. Un viaggio senza una meta precisa, in fuga da tutto e da niente, da nemici che non si vedono mai, la cui presenza si avverte solo per gli spari in lontananza. Umano e disumano si mischiano, i fuggitivi sono costretti più volte ad abbeverarsi da fonti di acqua putrida e a trovare un giaciglio tra lo sterco di uomini e buoi. La donna soffre fame e sete, perde le figlie, poi le ritrova, gioisce, si dispera, in un’atmosfera surreale che mette a nudo le bugie del regime. In migliaia perdono la vita per gli stenti del cammino massacrante. La Cambogia è l’ombra di quella narrata dai bollettini esultanti che Laurence ha tradotto negli ultimi anni, è un Paese in ginocchio, immiserito e abbandonato a se stesso. La lettura scarna ed essenziale delle ultime pagine mette in luce tutta la forza materna di Laurence, disposta a qualsiasi cosa per portare a termine la gravidanza, dotata di un’attaccamento alla vita che commuove. Senza mai smettere di credere a una possibile salvezza.

Alcuni guerriglieri Khmer entrano a Phnom Penh, 17 aprile 1975 (foto Ansa)
Alcuni guerriglieri Khmer entrano a Phnom Penh. È l’inizio del regime dei Khmer Rossi, 17 aprile 1975 (foto Ansa)
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Laurence, cosa l’ha spinta a raccontare la sua storia, «il viaggio al fondo dell’inferno» come lei stessa l’ha definito?

Decisi di farlo poco dopo il mio ritorno in patria. Sentivo il bisogno di condividere la mia storia dal momento che ero l’unica francese ad avere lavorato per i Khmer Rossi e una delle poche sopravvissute. Era un dovere di memoria per coloro che erano morti e una testimonianza ricca di insegnamenti per chi aveva occasione di leggerla.

I cambogiani che incontrò in quel periodo, soprattutto prima dell’evacuazione di Phnom Penh, erano profondamente convinti della bontà dei reggenti Khmer, pur di fronte alle difficoltà e alla povertà diffusa del Paese. Vi avevano fatto il lavaggio del cervello?

Le vicende sono avvenute più di mezzo secolo fa, all’epoca rappresentava un ideale nobile aiutare un Paese a uscire da quello che veniva definito “sottosviluppo”. Credo ancora nel concetto di progresso, i leader dei Khmer Rossi volevano sviluppare la Cambogia, non a caso riuscirono a raccogliere il consenso di tutti gli strati della popolazione che aspiravano a un futuro migliore. Purtroppo, i mezzi adottati furono disastrosi, ma è importante sottolineare che in ogni società l’essere umano è condizionato dai fattori più diversi tra cui media, cultura ed educazione. Ovviamente bisogna ribadire l’importanza del libero pensiero, che deve essere indipendente e sovrano, e soprattutto la questione dello sviluppo della coscienza.

Pol Pot
Pol Pot ritratto con i suoi nipoti in uno scatto del 1976 (Foto Ansa)

«L’uomo che avevo davanti aveva una sola idea: andare il più velocemente possibile dove lo chiamava la propria missione. La missione lo esaltava ed egli si esaltava in essa. Per sublimarla era pronto a qualsiasi sacrificio e per lui il sacrificio più bello era quello di sacrificare i propri figli e la propria moglie». Queste sono le parole con cui descrive l’atteggiamento di suo marito, che più volte ha abbandonato lei e le sue figlie in quegli anni, spesso addirittura accusandola di «arroganza francese» e di non «volere il bene del partito». Come sono cambiati i suoi sentimenti nei confronti di Suong negli anni?

Mio marito nel mondo dei Khmer Rossi si è rivelato diverso da come la conoscevo prima, anteponendo il suo ideale alla famiglia. Le sue convinzioni e la sua cultura lo hanno condotto dove ha voluto andare per sua scelta, così come le mie mi hanno impedito di seguirlo, per questo le nostre strade si sono separate. Narén, Sokha ed io – pur “distrutte” – siamo state resilienti, conservando il dovere della memoria, tenendo a mente che l’essenziale era che le mie figlie potessero vivere e crescere nel miglior modo possibile. Oggi, con il loro fratello Nicolas, i loro figli e le rispettive famiglie, sono persone straordinarie.

Anche di fronte all’ideologia, all’esperimento dei Khmer rossi che di fatto “annullava” l’umanità, a salvarle la vita nei momenti più duri sono stati i rapporti, l’aiuto di persone conosciute sul posto o totalmente sconosciute che gratuitamente si sono spese per aiutare lei o le sue figlie, spesso in condizioni di miseria e difficoltà disumane. Cosa ricorda e cosa le è rimasto nel cuore di quei gesti?

In quei mesi ho incontrato persone colme di saggezza, calorose, disinteressate, sobrie, dotate di un’intelligenza umana profonda, aperte alla conoscenza, e al tempo stesso gioiose e dotate di humour intelligente. Al loro ricordo mi commuovo ancora oggi e rimpiango di non aver potuto offrire loro nulla. Ero andata per dare e ho finito per ricevere molto di più.

Un visitatore guarda le fotografie esposte nel museo di Toul Sleng, che ritraggono le vittime di torture e uccisioni dei Khmer Rossi, Phnom Penh, 23 giugno 1997 (foto Ansa)
Le fotografie esposte nel museo di Toul Sleng che ritraggono le vittime di torture e uccisioni dei Khmer Rossi, Phnom Penh, 23 giugno 1997 (Foto Ansa)

Ha perdonato o nel suo cuore c’è ancora rancore verso i responsabili della tragedia cambogiana e verso suo marito? Cosa non perdona a se stessa?

Negli ultimi anni sono emerse situazioni ancor peggiori di quelle vissute sotto i Khmer rossi. Il mondo terrificante descritto da George Orwell in 1984, che si era materializzato in Cambogia, oggi riemerge in diverse parti del pianeta su larga scala. Speravo sinceramente che la nostra tragedia servisse da lezione all’umanità, affinché nulla di simile si ripetesse. Purtroppo il problema della natura umana, del male e della violenza insita nell’uomo, resta. La questione del perdono è immensa, che cosa significa perdonare? Non penso significhi dimenticare, tantomeno assolvere o pretendere un risarcimento. Dubito che perdonare i carnefici possa cambiare qualcosa. Il male è parte della natura umana, forse l’unica cosa è provare a non serbare rancore.

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Nei momenti più duri, quando era a un passo dal baratro, in un mondo che poteva sembrare “senza Dio”, lei invece si rivolgeva a Lui. Che rapporto ha oggi con la fede?

Essere sopravvissute non è dipeso da noi, non è stato frutto delle nostre azioni o della nostra volontà. In qualche modo siamo state protette. Devo dire che, con l’avanzare dell’età, percepisco sempre più chiaramente la realtà di una presenza immateriale.

Il libro si conclude con la morte di suo figlio. Cosa è successo dopo? Come ha ricostruito la sua vita?

La vita è un grande mistero. È un lungo fiume sul quale non è facile remare senza incagliarsi sulle rive, né navigarvi al centro. La natura e l’anima mi hanno spinta ad andare avanti, a rialzarmi ogni volta che cadevo in ginocchio, a ripartire, facendo di me quello che sono oggi. E ogni giorno rimango sorpresa e interrogativa di fronte a questa vita, che è un meraviglioso privilegio, anche se subiamo più di quanto facciamo. La vita sa dove va. Noi non possiamo capirlo, ma nulla ci impedisce di agire nel nostro piccolo, anche solo come un colibrì, per contribuire ogni giorno, con i mezzi che abbiamo a disposizione e secondo le nostre forze, a costruire un mondo migliore.

Laurence Picq, Oltre il cielo. I miei anni con i Khmer Rossi nella Cambogia del genocidio, 1975-1979. Ediz. ampliata, Tre righe di libri, 250 pp, 20 euro


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