Il giorno che Cristo, in una chiesa deserta, consolò un amico scienziato di Calcutta
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Questo volevo scrivervelo il 4 settembre scorso, quando Madre Teresa di Calcutta è stata proclamata santa. Io non sono mai andato in India, forse perché c’è stato così tanto a lavorare mio padre – e mio suocero – che ho pensato bene di abbassare la media familiare. E l’India per me, quando avevo sei anni e avevo appena imparato a scrivere, era il posto favoloso dove lavorava mio papà e dove volava la mia letterina settimanale di carta velina. Mamma posso scrivere un foglio di più? No, perché è posta aerea e le buste devono essere leggere, se no l’aeroplano non ce la fa a passare l’Himalaya.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Il contratto prevedeva 8 mesi in India e 20 giorni a casa. Stessa storia, scoprii, per mia moglie. Sia da mio padre che da mio suocero, due lavoratori italiani, pionieri dell’epopea dell’Eni, che avevano letteralmente battuto l’India, palmo a palmo, ho sempre sentito bei ricordi sulla gente. Avevano lavorato in tutti i Paesi arabi, in Nigeria, in Persia. Ma l’India occupava uno spazio speciale nel loro cuore. Ho avuto la fortuna di conoscere un indiano di Calcutta. Uno scienziato di levatura internazionale nel suo campo che, per amore della riservatezza, citerò solo per nome: Ranjan.
Ho conosciuto Ranjan all’apice della sua carriera, che l’ha portato a girare i più prestigiosi centri di ricerca ed università. Simpaticissimo, solare, curioso, generoso, spontaneamente amichevole. Nei discorsi, a cena, siamo finiti per parlare anche di religione e di fede. Nato da una famiglia di casta Brahmani, quella dei sacerdoti e degli intellettuali, il padre, un docente, lo ha educato cercando equilibrio fra la tradizione induista e i cambiamenti del tempo. Mi ha confessato, assai umilmente, che è induista sì ma come tanti cattolici che finiscono talvolta per non pensare a Dio e ai santi più di tanto.
Ma subito dopo, facendosi serio, mi ha voluto raccontare questa vicenda: si trovava a Roma quando, improvvisamente arrivò la notizia della morte del padre, amatissimo. È veramente disperato, per la lontananza dalla sua famiglia, a Calcutta. Distrutto, entra in una chiesa, deserta. Si siede abbattuto su un banco, sotto un grande crocifisso ligneo. E volgendo lo sguardo a quel volto, avvertì fortemente la sensazione che «quell’uomo sulla croce era lì per condividere il mio dolore, mi parlava, si dichiarava vicino a me e a mio padre per sempre». «Provai una consolazione indicibile»: me lo dice con uno sguardo che quasi rievoca il turbamento del momento – e non ammette repliche.
Ripenso alle sincere parole di Ranjan e a quelle di Madre Teresa – terribili – sul silenzio di Dio. Come, forse, la preghiera di quella santa per la sua gente, sia arrivata anche a questo amico.
Foto Ansa
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