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Il “Fidelio” infedele. Un capolavoro di Beethoven rovinato da pulsioni operaiste e un po’ eterofobe. Rilettura riparativa

Così alla prima della Scala «la creatura più cara» di Beethoven è stata strapazzata in ossequio a visioni culturali (e inclinazioni sessuali) del tutto fuori luogo

Giovanni Fornasieri
21/12/2014 - 1:30
Spettacolo
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C’era da aspettarselo. Dopo La traviata dell’anno scorso e il Lohengrin wagneriano, anche Beethoven (con l’unica, grandissima opera lirica che abbia scritto e di cui l’autore disse poche settimane prima della morte: «Di tutte le mie creature è quella che mi è costata i più aspri dolori, quella che mi procurò i maggiori dispiaceri, e perciò mi è anche la più cara», accostata dal grande Furtwängler alla Missa Solemnis, l’una definita sacro-umana, l’altra sacro-divina) è stato immesso nel tritacarne ideologico di registi e direttori mossi solamente dall’ansia di proiettare le proprie pretese visioni culturali su un testo drammatico che ha una precisissima e inequivocabile origine storica, occultata per anni da addetti ai lavori preoccupati di “attualizzare” la vicenda, identificandola via via con i “fascismi” del XX secolo (ovviamente “neri”), casomai si scoprisse che Beethoven aveva scagliato il grido accusatore nientemeno che contro la Rivoluzione francese e Napoleone, il quale nel 1805, anno della prima versione del Fidelio, già aveva occupato il 30 ottobre Salisburgo e dormito a Schönbrunn il 15 novembre.

Perché quella fabbrica dismessa?
Il Fidelio andava in scena il 20 novembre 1805 al Theater an der Wien colmo di ufficiali francesi. Gli amici, protettori ed estimatori di B. erano dislocati in ville, castelli e campagne della Polonia e dell’Ungheria. Beethoven, dopo le iniziali entusiastiche speranze, aveva “sepolto” il Bonaparte nella Marcia funebre dell’Eroica (1804) e si preparava a mettere in scena la Leonore (poi cambiata in Fidelio – probabilmente da Fidelia, personaggio travestito da uomo in Cymbeline di Shakespeare – a causa delle pressioni di Paër, che aveva già composto un’opera sul soggetto), donna-eroina in sembianze maschili che rischia la vita per amore del suo sposo ingiustamente imprigionato, riuscendo nell’impresa.

L’opera unica di B., unica in tutti sensi, grido di verità, libertà, amore e felicità quale mai si era visto sui palcoscenici d’Europa, traeva dunque il materiale drammaturgico da un evento realmente accaduto, raccontato dallo stesso protagonista, come vedremo più sotto, e che Beethoven perfettamente conosceva. Ciò nondimeno Deborah Warner, la regista dello spettacolo inaugurale della Scala, il 7 dicembre scorso, sente l’urgenza irresistibile di esprimere visivamente e fisicamente, ce ne fosse bisogno, il proprio orientamento sessuale e una latente inclinazione eterofoba del tutto estranei alla partitura, rispettivamente all’inizio del primo e alla fine del secondo atto del Fidelio, oltre a inopinatamente ambientare la scena in una fabbrica dismessa (accusa velata a un capitalismo ante litteram?), mentre per Beethoven l’azione si svolge in un carcere ferocemente disumano. Ma andiamo con ordine.

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Una storia vera

L’opera nasce dal libretto francese di Jean-Nicolas Bouilly Léonore ou l’amour conjugal, già messo in musica dal cantante-compositore Pierre Gaveaux, dal parmigiano Ferdinando Paër e dal tedesco italianizzato Johann Simon Mayr. Il Bouilly (Don Fernando nell’opera) racconta un episodio effettivamente avvenuto a Tours durante gli anni del Terrore robespierriano. Essendo pubblico accusatore, gli toccò l’istruzione del processo contro un amico d’infanzia, il conte René de Semblançay, controrivoluzionario. Bouilly rinviò con ogni espediente il processo, sino a destare i sospetti di Robespierre, acerrimo nemico del conte. Nel frattempo il carceriere Pujol (Rocco nell’opera) rintracciò Blanche (Leonore-Fidelio), la moglie di de Semblançay, per introdurla nel carcere sotto sembianze maschili. Robespierre decise di «spopolare le prigioni andando ad uccidere, uno per uno, la maggior parte dei sospetti» (M. A. Thiers), mandando ad eseguire il criminale disegno Jean-Baptiste Carrier (Don Pizarro nell’opera), colui che nel 1794 contribuì al genocidio della Vandea con l’invenzione delle “noyades de Nantes”, gli annegamenti di massa (cinquemila vittime circa). Fu uno dei più feroci artefici del Terrore, periodo che può essere paragonato solo ai più terribili eccidi di massa della storia. La Contessa affrontò dunque realmente Carrier nelle segrete del carcere, costringendolo a inginocchiarsi e a fuggire con la pistola puntata (unico particolare rimasto intatto nell’opera, oltre al ferro da stiro elettrico – sic! – di Marcellina all’inizio del primo atto).

Il Fidelio è opera di libertà, amore e profondo senso religioso. Per esempio nel primo atto, scena quarta, Leonora esclama: «Ho fiducia in Dio e nella sua giustizia»; oppure nel secondo atto, alla fine: «Tu ci metti alla prova, non ci abbandoni!». La figlia del carceriere Rocco, Marcellina, si innamora di Leonora (che è in abiti virili) e lei dissimula a fatica («Ho dato la mia mano per un legame che costerà amare lagrime!»). Ma il suo unico intento è quello di ingraziarsi Rocco (a Marcellina che esclama, con tenerezza: «Fidelio!», ella risponde: «Basta con questi discorsi! Rocco, già più volte vi ho pregato… di far uscire i prigionieri») per convincerlo ad accompagnarla nelle segrete dove spera di incontrare e forse liberare il marito che non vede da più di due anni.

Il coming out non richiesto
È del tutto assurdo che, a questo punto, Leonora baci appassionatamente sulla bocca Marcellina, ché è anzi da lei che deve guardarsi. Né avrebbe potuto una donna, anche se sua figlia, accompagnare il carceriere nelle segrete per cercare un presunto colpevole, stante il divieto assoluto del Comandante Don Pizarro (è tutto detto nell’opera). È un gesto assolutamente gratuito, artificioso, non richiesto, nonché drammaturgicamente sbagliatissimo. Non rimane che pensare all’ossessione sessuale della regista che vuole a tutti i costi “comingouttare” – da “coming out”, con ricercato e compiaciuto mostro lessicale lo ammetto – il proprio, non richiesto, orientamento in materia.

Il sospetto è confermato nel finale dell’opera, dove Leonora e Fidelio, invece di abbracciarsi come il testo richiede (Leonora pende dal collo di Florestano e, più avanti, Florestano cade tra le braccia di Leonora dopo che questa lo ha liberato dalle catene recidendole ella stessa, come recita, inequivocabile, la didascalia), rimangono a distanza di sicurezza di circa dieci metri sul palcoscenico cantando a squarciagola: «Il mio sposo al mio petto! Il mio sposo al mio petto!», contraddicendo imperiosamente ciò che pronunciano in uno dei più belli ed appassionati duetti d’amore che la storia della musica universale abbia mai prodotto. Solo sul finire della musica, sospinti dalla furia e dall’ira beethoveniana, i due protagonisti riescono a fatica ad avvicinarsi toccandosi la fronte, timidamente. Siamo al delirio totale. L’amore coniugale strozzato, soppresso, annichilito, annullato.

Il resto dell’opera, anche se con buone prove di Rocco, Marcellina e Jaquino, naviga sufficientemente fra gli «errori di grammatica del maestro Barenboim», come li ha giustamente definiti Paolo Isotta sul Corriere della Sera: scelta sbagliata dell’ouverture (il Fidelio ne ha ben quattro, ma per la versione del 1814 Beethoven ha scritto quella “giusta”, che voleva chiaramente si eseguisse) e altri che si tralasciano per brevità.

Ma non occorre essere musicisti né drammaturghi per capire tutto ciò. Occorre sfatare una volta per tutte il mito dell’esperto “per capire la musica” o più in generale l’arte, soggiacendo all’imperativo della cultura dominante. Essa, l’arte, è per sua natura a portata di chiunque, basta solamente essere scevri da pregiudizi ed accostarsi con animo aperto e curioso alla proposta che ci viene innanzi, “interpretando” a nostra volta – come diceva la grande pianista ebreo-russa Marija Judina – l’esperienza estetica che ci viene comunicata. Come? Ascoltando e riascoltando, alla ricerca del senso e della teleologia dei segni, cioè il senso-scopo dell’opera stessa. L’interprete offre un’interpretazione che siamo chiamati a nostra volta a “convalidare”, ricercando, per inesausta approssimazione, la corrispondenza tra le intenzioni espresse dall’autore e l’effettiva resa, in questo caso musicale e drammaturgica, dell’opera in oggetto.

Non riverenza ma commozione
Nel caso dell’opera lirica basta semplicemente leggere prima il libretto ed, eventualmente, andare alla ricerca di quelle informazioni (di solito poche) utili per comprenderne meglio il linguaggio e che il testo stesso richiede. Nulla di più. Ci accorgeremo, allora, di come sia affascinante scoprire il senso di un’opera musicale, figurativa o architettonica, mettendo in gioco tutta la nostra capacità di attenzione, di studio, nel senso di “essere interessati vivamente a”, di intelligenza, da “intus legere”: guardar dentro con passione al vivo fatto artistico, con l’ipotesi ragionevole di reperirvi un senso. Accogliendolo, quindi, o rifiutandolo, o ancora – come nel nostro caso – svelando l’inganno che ne occulta vergognosamente il profondo significato.

In un tempo come il nostro, dominato dal relativismo culturale che piega tutto, quindi anche l’arte, alla visione totalitaria del mondo e delle cose – perché il relativismo assoluto è la versione più tragica del totalitarismo proclamato – occorre la resistenza dell’io e di uomini disposti a sacrificarsi (come fece la già citata Judina) per ridonare alla bellezza lo splendore del vero. Il grande latinista Concetto Marchesi diceva che «l’arte non ha bisogno di uomini riverenti, bensì di uomini commossi». A quando una regia, una direzione, una comunicazione appassionata del vero che sia degna della fatica e dell’amore dell’autore che ha creato l’opera?

Scriveva don Luigi Giussani due anni prima di morire, dopo la strage di Nassiriya: «Se ci fosse un’educazione del popolo, tutti starebbero meglio».

Tags: barenboimbeethovenCorriere della SeraMilanonapoleone bonaparteoperapaolo isottarivoluzione franceserobespierrescalateatro alla scala
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