
Il fatto cristiano e lo schiaccianoci. Le lettere di Biffi a una “puledra indomata”

Lettere a una carmelitana scalza (1960-2013) ripercorre oltre cinquant’anni di scambio epistolare tra Giacomo Biffi e una suora, Emanuela Ghini, curatrice del volume, che per quanto è possibile ricostruire attraverso la lettura dei pensieri e delle battute del cardinale (la stragrande maggioranza della corrispondenza della religiosa infatti è andata perduta) doveva essere l’esatto opposto di Biffi, almeno all’inizio dell’amicizia tra i due. O meglio, sembra pensarla all’esatto opposto di Biffi su molte cose, mentre ad animare entrambi gli interlocutori, pur nella differenza anche radicale di vedute, deve per forza essere stata sempre la stessa passione per Cristo e per la sua Chiesa, altrimenti sarebbe difficile spiegare una tale fedeltà.
Lui la chiama “puledra indomata” e si capisce che lei ha trovato in Biffi un solido interlocutore con cui liberare il suo spirito contestatario. Lui la rimprovera, la rimbecca, la corregge, qui e là la prende anche in giro, ma sempre con profondo affetto, mai dimenticandola né trattandola con sufficienza in oltre mezzo secolo di rapporto. E lei – sempre stando a quanto è dato di capire – da quel convento che a tratti pareva starle così stretto intorno imparerà a guardare lui quasi con venerazione, nel senso più positivo della parola, tanto che ne curerà diverse raccolte di scritti e discorsi.
Come tutte le opere di Biffi, anche questo epistolario vale la pena della lettura integrale, comprese la prefazione e la postfazione firmate dai suoi successori sulla cattedra di Bologna Carlo Caffarra e Matteo Zuppi, che danno anche l’idea del peso che ha la figura di Biffi per la Chiesa di ieri e di oggi, “di destra” e “di sinistra”.
Oltre alla sua solita scrittura incredibilmente godibile e al suo inconfondibile umorismo, Biffi regala in questo libro una miriade di spunti e appunti formidabili. L’urgenza drammatica di «scegliere tra l’assurdo e il mistero; tra il non-senso e il suicidio della ragione, e la resa a una verità che penosamente ci oltrepassa e ci eccede». Lampi di struggimento cristiano di un intelletto oggettivamente superiore. Incursioni in una esperienza personale autenticamente divina, e in una fede senza paura di entrare in «collisione con la realtà». Simpatici ma non banali tormentoni (l’inutilità della “cultura” intesa in modo mondano, la gabbia del ruolo episcopale, i cuori induriti dei cardinali…) e fissazioni (la differenza tra scrivere Chiesa con la maiuscola e con la minuscola). Con il cristocentrismo a determinare lo sguardo su ogni cosa, da Tolstoi alle elezioni, dalle istituzioni ecclesiali alla questione della verità («quella primordiale e più urgente per i cristiani e per tutti»)
Il volume è uscito a giugno per Itaca. Di seguito riportiamo stralci di alcune delle lettere contenute nel libro che attraversano un paio di decenni (anni Settanta-Ottanta) offrendo giudizi sull’Italia di allora che costringono a riflettere ancora oggi.
* * *
Milano, 31 agosto 1970
Le mando Il quinto evangelo, sarà una bella delusione per lei. Non è stato facile decidere di scriverlo. Ho rimandato per due anni, sperando che l’idea venisse a qualcun altro. Si trattava di perdere di colpo la fama di persona aperta, progressista, e rischiare di essere annoverato tra i reazionari: un vero suicidio, coi tempi che corrono. C’era il rischio di venir strumentalizzato e confiscato da certe correnti della cristianità con le quali non ho mai avuto molto da spartire. Avrei magari sacrificato qualche amicizia; e le amicizie sono sempre state un gran bene per me. E c’era la mia pigrizia a scrivere.
D’altra parte, vedevo anche con quanta leggerezza le idee più importanti del cristianesimo venivano lasciate nell’ombra o rinnegate. Vedevo le poche voci di ammonimento (anche se non sospette di integrismo, come quella di Maritain) irrise o fasciate dalla congiura del silenzio. Vedevo il disorientamento e la pena dei semplici, coi quali sono quotidianamente in contatto, quelli che conoscono l’Amore, anche se non hanno letto i decreti conciliari. E mi sono posto il problema di coscienza di un silenzio che poteva divenire complicità.
E così mi sono risolto, molto di malavoglia. Adesso sono tranquillo.
Io capisco bene che una monaca di clausura possa fare la contestatrice e l’avanguardista. Ma chi è a contatto con la cristianità in questi anni, non può chiudere gli occhi alla realtà e non domandarsi se non si è presa davvero una strada sbagliata: cristianità chiacchierona, petulante, dove non c’è più metanoia ma solo rivendicazioni: dove non c’è misericordia per nessuno; dove non c’è più il senso di Dio e neppure in fondo l’attesa del suo Regno.
Il quinto evangelo vuol solo rivendicare il carattere trascendente ed escatologico del cristianesimo. Non è la Summa contra gentes: è solo un colpo di spillo in un pallone che mi pare ormai troppo gonfiato.
7 dicembre 1971
Mi sento effettivamente spiritualmente lontano dal gruppo dei bolognesi famosi. Ci gioca un po’ quello strano rimasuglio di complesso di inferiorità e di complesso di superiorità che caratterizza un po’ i milanesi nel confronto del resto d’Italia. Ma più profondamente (è una confidenza che non mi fa onore e che non farei a nessun altro) è la diffidenza verso un cristianesimo di estrazione sostanzialmente borghese. E quanto più le dichiarazioni programmatiche sono pauperiste, tanto più cresce la mia diffidenza.
Il discorso sulla Chiesa dei poveri non ha molta eco dentro di me perché né l’ambiente religioso che mi ha cresciuto né quello dove ho finora esercitato il mio ministero è stato composto né di benestanti né di intellettuali.
Ci sentivamo estranei anche al cristianesimo un po’ aulico e formalistico, che dominava nel passato. Ma tutto sommato ci metteva meno in sospetto delle odierne mode postconciliari. Solo che siam gente che non scriviamo troppo, perché ci sembra un perditempo, e non sappiamo parlare se non con un dialetto che non osiamo adoperare fuori casa.
Questo (riferimento a le Meditazioni sulla vita ecclesiale, Àncora, Milano 1972, ndr) è un tentativo di dimostrare che la “singolarità” del mio modo di fare e di parlare, non è tanto una particolarità mia, quanto l’espressione di un contesto sociologico.
Milano, Pentecoste 1973
Andrò in Sardegna. Quest’anno, oltre al solito don Lattanzio, mi sarà compagno anche don Luigi Giussani, amico mio carissimo, fondatore e profeta del movimento di “Comunione e Liberazione”, che di questi tempi sta raccogliendo un po’ in tutt’Italia, tra i vescovi, il clero e il popolo di Dio, amore e odio ugualmente fanatici.
Io non mi sento particolarmente attratto dalle forme del movimento, ma certo il vedere migliaia e migliaia di studenti universitari che di fronte alla prepotenza del Movimento studentesco parlano di Gesù Cristo come se lo incontrassero tutti i giorni all’ora dell’aperitivo, mi impressiona un po’.
Certo don Giussani è un uomo di Dio.
Milano, 27 marzo 1975
E adesso ti dico il mio parere sincero, anche se non particolarmente competente, sulla situazione italiana. La libertà sta agonizzando, la prepotenza domina incontrastata, l’intimidazione è continua, la stampa è già per larga parte asservita, le notizie sono manipolate, ridotte o amplificate a piacimento.
Il pericolo fascista è, tutto sommato, irrilevante, per la perfetta stupidità del movimento, per lo scarso appoggio nel paese, per l’assoluta strapotenza della parte di sinistra. Anche le loro bande sono, in fondo, un segno disperato di impotenza, come quelle degli anarchici di ottant’anni fa.
La violenza degli extraparlamentari di sinistra è, oltre che incomparabilmente più ampia ed estesa anche in fatto di uccisioni e di percosse, estesa e spudorata in tutti i campi della vita civile. Milano per esempio, è una grande città, ogni giorno intimidita dalla prepotenza di pochi, e non sa reagire. Un esempio tipico è stato il modo in cui si è votato all’università: chi si recava a votare doveva attraversare un corridoio di duecento persone, riceveva insulti, sputi, percosse, tutto questo sotto gli occhi delle pubbliche autorità. Il risultato è stato che ha votato solo il 10 per cento, e anche all’Università di Stato ha vinto «Comunione e Liberazione», perché hanno votato solo i più coraggiosi.
C’è poi l’obiettiva ingiustizia nel considerare i misfatti: se uno è ucciso da un fascista, è un delitto e si fa uno sciopero generale: se uno è ucciso dalla sinistra, non è niente e la cosa è messa subito a tacere.
Comunque i due tipi di violenza fanno ambedue il gioco del partito comunista, il quale è presente ormai con le connotazioni del partito d’ordine, capace di salvare dal caos. Se volesse potrebbe impadronirsi anche subito del potere. È una grande potenza economica, controlla buona parte della stampa maggiore, influenza sempre più fortemente la televisione, è presente nella magistratura, ispira quasi tutto l’insegnamento scolastico. Aspetta soltanto che la pera cada da sola.
Per chi votare? La Democrazia cristiana non merita il voto, è ormai un partito senza ideali, tutto preso dal giro degli interessi personali e alla vigilia del disfacimento. Tuttavia voterò ancora DC, perché ogni altro voto affretterebbe la perdita della libertà che ci rimane. E che il Signore ce la mandi buona.
Milano, 6 luglio 1975
Ancora una parola sulle elezioni. Ovviamente vi ho trovato conferma delle mie supposizioni: la insignificanza di un reale pericolo fascista, l’imminenza di una sostanziale perdita della libertà a opera dei comunisti, che già detengono i principali centri di potere, lo sbandamento dei cattolici. Vorrei aggiungere qualcosa del voto dei giovani: essi, in fondo, non hanno votato a sinistra, hanno votato per il centro. Difatti il partito comunista ormai da molto si presenta come un partito di ordine, di moderate riforme, di serietà amministrativa: un partito di centro insomma.
A sinistra (extraparlamentari e partito socialista) hanno votato i borghesi: a Milano i figli della borghesia sono in prevalenza legati ai gruppuscoli di sinistra (assieme ai cattolici di avanguardia). Ma la borghesia ha pochi figli, e il loro insuccesso è forse più grande di quello della DC.
Il guaio è che l’immagine elettorale del partito comunista non corrisponde né alla sua anima né alle sue intenzioni né ai suoi legami internazionali. (…)
P. Turoldo: credo sia un discreto poeta, un buon traduttore di salmi, un oratore efficace. Purtroppo vuol fare altre cose. La sua “teologia” è farneticante, la sua abituale frequentazione dei ricchi e dei colti lo induce a farsi annunciatore di una Chiesa povera e semplice. La sua affinità elettiva con chi ha il potere dei mezzi di comunicazione (televisione, «Corriere della Sera» ecc.) gli dà una risonanza e un’amplificazione del tutto sproporzionata e ingiusta. Purtroppo alla cristianità italiana oggi sono inferti profeti di questa natura. Recentemente ha manifestato verso «Comunione e Liberazione» tutto il livore di chi si è dovuto accorgere che i giovani non sono affatto attratti dal suo cristianesimo borghese infiocchettato di sinistrismo, mentre a decine di migliaia accorrono ad ascoltare parole di fede senza compromessi e senza prestiti eterogenei.
Grazie a «Comunione e Liberazione», a Milano la DC è rimasta sulle sue posizioni. Io non condivido la critica spietata che questi ragazzi – dall’interno – rivolgono al partito democristiano. Ma il loro aperto impegno politico – il loro nome, che è quello di un gruppo che vuol essere solo esperienza di Chiesa – mi lascia molto perplesso.
Ne discuterò alla Maddalena, con don Giussani e don Lattanzio
7 novembre 1975
Prega un po’ per l’Italia. Tutto si sta scollando.
La cosa più comica sono i cattolici impegnati e gli intellettuali in genere, che puntano fieramente i loro fucili dalla parte dove non ci sono più nemici (e dove non si corre alcun pericolo).
Credo che i soli luoghi dove si può tentare di vivere secondo ragione siano i monasteri di clausura, soprattutto i più ottusi.
15 aprile 1977
Quel che mi scrivi su CL mi conferma quanto bene funzioni in Italia il filtro dell’informazione e come si sia sempre indotti a fare a metà dei torti e delle ragioni, anche nella discussione tra il lupo e l’agnello.
In realtà la faccenda è molto meglio. Sono ragazzi convinti di avere il diritto di fare un’esperienza di vita associata alla luce della loro fede, nel pieno rispetto dei diritti altrui, che non hanno mai tentato di violare una sola volta. In forza di questo diritto, essi costituiscono all’interno dell’università l’unico gruppo che – con la sua sola esistenza – contesta la cultura egèmone che ritiene di essere l’unica. Perciò sono insopportabili, perciò sono picchiati a morte. All’infuori di quello di esistere, non hanno mai compiuto nessuna provocazione; ma è la loro esistenza a essere provocatoria.
In una società ormai arresa e impaziente di rendere omaggio al nuovo “principe”, sono gli unici a ritenere che la salvezza dell’uomo arrivi da un’altra parte e la sua promozione vada cercata in un’altra direzione.
Don Giussani – che non si è mai sognato di occuparsi di politica – da molte settimane vive randagio, dormendo sempre in posti diversi, perché la polizia l’ha avvisato che esiste un progetto preciso di fargli la pelle. Quando gliela faranno, si troverà modo di dimostrare che è stata colpa sua.
Del resto, non è CL in gioco, è il fatto cristiano.
Contro il fatto cristiano, sta egregiamente funzionando lo “schiaccianoci”, con le sue due “branche”: 1° il cristianesimo che si occupa del Regno dei cieli è alienante e dannoso per l’uomo, perché lo distrae dai veri problemi; 2° il cristianesimo che si occupa dei problemi umani e sa dare soluzioni proprie commette un’indebita ingerenza in campo politico.
Il comico è che ci sono molti cristiani tra i sostenitori della prima e della seconda accusa o di tutte e due insieme. Non ci resta che affidare la voce alla Provvidenza; ma non possiamo che esprimere la solidarietà e l’ammirazione per coloro che nella vita, senza guadagni e con molto pericolo, dimostrano la falsità di tutte e due le argomentazioni.
27 dicembre 1980
Ti dirò poi che la vicenda di questi anni mi ha fatto capire le epoche di decadenza della cristianità: credo siano spesso dovute allo zelo col quale si affermano e si esaltano alcuni aspetti, e non ci si avvede della eclissi di altri, e talvolta anche più importanti, valori. Comunque la decadenza che stiamo vivendo è grande, universalmente diffusa e per qualche aspetto crescente. Mi pare possa essere paragonata alla crisi che è seguita al concilio di Nicea, quando il mondo «si svegliò ariano»: adesso la cristianità si è trovata secolarista, solo che non si è ancora svegliata. O forse la nostra epoca è simile a quella seguita al concilio di Costanza, da cui si uscì solo con la tragedia della Riforma protestante e con le asperità della Riforma cattolica.
Vero è che quelle due epoche furono anche tra le più ricche di nuovi fermenti e di autentici impulsi di rinnovamento. E così io credo sia questo. Il Signore è vivo e sa usare anche le nostre sciocchezze per operare i suoi prodigi. Ma questo non significa né che dobbiamo sforzarci di essere sciocchi né che dobbiamo perseverare fino alla fine nell’esaltare, quando le incontriamo, le apostoliche grullerie.
19 aprile 1987
La nostra epoca non è affatto post-cristiana. È “post” tutto: post-illuministica, post-risorgimentale, post-marxista, post-scientista, ma non post-cristiana. I miti e le ideologie sono tutti al tramonto. Nessuno può più illudersi. Ma Cristo è vivo, e il cristianesimo appare sempre più la sola alternativa all’assurdo. Certo, il regno dell’assurdo è vasto, ma tutto è accorgersi che è assurdo. Molti vivono senza scopo, ma sentono di vivere senza scopo. Perciò c’è molto accanimento contro la Chiesa – la sola che si ribella all’assurdità – ma c’è anche molta attenzione a quello che dice e quello che fa.
Il mondo assurdo non mi fa paura: è la controprova, giusta e necessaria, della verità della fede e della necessità di Cristo. Mi fanno paura gli uomini di Chiesa che non ritengono più importante distinguere tra il vero e il falso, e i cristiani (specialmente gli intellettuali cristiani) che ragionano in modo mondano.
Ma la Pasqua ci dice: il Signore ha vinto, e dunque possiamo stare in pace.
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