
Squalo chi legge
Il Dopoguerra dei vinti

Con questo articolo inauguriamo “Squalo chi legge”, newsletter settimanale di recensioni di libri, consigli per la lettura, testi da tenere sul comodino liberamente scelti dalle firme di Tempi. Più qualche stroncatura. Una indispensabile miscellanea di opere nuove, in uscita o ripescate, alcune famose, altre sconosciute o magari dimenticate, ognuna da leggere (o da cestinare) per un motivo preciso.
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«C’era una volta un quartiere con strade larghe e diritte, piazze, parchi, case a cinque piani con il prato di fronte, garages, osterie, chiese e toilettes. Il quartiere ha inizio presso la stazione di una linea ferroviaria periferica e si estende fino a poco oltre la fermata successiva.
Viaggiando in treno, per un quarto d’ora si ha un panorama ininterrotto su qualcosa che somiglia a un’enorme discarica di frontoni in pezzi, singoli muri rimasti in piedi con finestre senza vetri che, come occhi spalancati, guardano già verso il treno, indefinibili resti di case con tracce ampie e nere di incendi, resti alti, scolpiti arditamente come monumenti alla vittoria oppure piccoli come pietre tombali di media grandezza. […] Tutte le forme geometriche si trovano rappresentate in questa variante di Guernica e Coventry».
Non è il Donbass, non è Kharkiv. 1946, Amburgo: in una Germania in macerie folle di senzatetto si rifugiano nelle cantine dei palazzi bombardati, mentre dall’Est continuano ad arrivare convogli carichi di profughi. Ad Ovest, nella Ruhr distrutta, in due giorni sono caduti in quell’autunno 60 centimetri di pioggia: e i profughi scesi dai treni si contendono garage allagati, con le brande al livello del fango, la legna umida che non prende fuoco in una stufa rubata dalle rovine di un palazzo. Al mattino qualcuno ordina ai bambini di alzarsi dai giacigli, e andare a scuola. Quelli obbediscono, con le scarpe rotte camminano nell’acqua, risalgono scale affollate di altra gente che dorme e vanno verso la scuola – che spesso non c’è, o è chiusa.
La Germania del ’46 in ginocchio, nello straordinario reportage di uno scrittore giovanissimo. Stig Dagerman, svedese, ha appena 23 anni quando arriva a Berlino. Figlio di un anarchico, romanziere esordiente, Dagerman non è un giornalista, non ne ha i condizionamenti, né è embedded con gli eserciti alleati. Per due mesi di quell’autunno percorre strade, entra nelle case, parla con tedeschi di ogni estrazione. Ne esce uno straordinario ritratto di un paese sconfitto, immiserito, rabbioso contro Hitler ma anche contro gli Alleati, da cui si sente punito.
Del Dopoguerra italiano sappiamo qualcosa dai film del neorealismo, ma anche da quella drammaticità ci perviene un sollievo: la guerra finita, i tedeschi in ritirata. Della miseria e dei rancori fra ex nazisti arricchiti, ebrei scampati e semplici civili sottoposti a processi nelle Spruchkammer, Corti per la denazificazione, nella Germania degli stessi anni, io non sapevo. Ho letto Dagerman, tradotto in italiano da Lindau, nel 2007, e mi ha sbalordito, oltre che per la scrittura essenziale e direi casta, per ciò che racconta: il buio Dopoguerra dei vinti. Forse non interessava, all’Occidente, il destino di un popolo colpevole di avere tollerato Auschwitz, e la morte di milioni di ebrei?
A quel ragazzo svedese, invece, interessava. Un giornale di Stoccolma gli commissionò il reportage. A Berlino i più autorevoli corrispondenti gli consigliarono, per capire la Germania, di leggere i giornali. Dagerman invece voleva vedere con i suoi occhi le cantine gremite, voleva annusare le pentole dove bollivano patate gelate e altro, chissà cosa: piccioni? Topi? Sulle banchine del metrò di Berlino incrociava giovanissime tedesche abbracciate a soldati americani ubriachi. E invece di disprezzarle si domandava se era più immorale prostituirsi o lasciare morire di fame i figli o i fratellini.
Uno sguardo diverso, non moralista. E una scrittura così purificata da ogni parola non essenziale, per cui ti pare, quelle cantine, di vederle.
Le pagine più indimenticabili sono le cronache dei viaggi in treno. I treni del 1946 in Germania sono tanto gremiti che per salirci bisogna farsi largo a botte. Spesso ci piove dentro, o hanno i vetri rotti coperti da assi di legno, e in uno scompartimento per sei ci si stringe, in piedi, in venti, quasi senza respirare. Tuttavia c’è ancora gente sui tetti: e quando il treno ferma, quasi assiderata, supplica i passeggeri accalcati di potere scendere nei vagoni. Su quei treni c’è anche gente che spera: come quel Gerhard, 16 anni, profugo dalla Germania Est, che con ostinata insistenza costringe Dagerman ad aiutarlo, e a comprargli un biglietto per Amburgo, da dove sogna di partire per l’America. Ma non c’erano navi, nel ’46, da Amburgo all’America.
Un altro treno del libro si ferma a Essen, su un binario morto. Il locomotore se ne va e nessuno se ne cura, come fosse un convoglio di merci senza valore. Ci sono 200 uomini e donne e bambini su quel treno invece, sfollati durante i bombardamenti in Baviera e di ritorno nella città natale: ma nessuno se ne cura. Solo la Croce rossa distribuisce latte in polvere per i bambini piccoli, subito circondata da una folla affamata di bambini più grandi e ragazzi, affamati.
Germania 1946, incredibile. Nessuno me l’aveva raccontata in questo modo. Certe pagine tagliano come solo fanno le cose viste con i propri occhi, gli odori annusati, gli sguardi colti per un istante nelle facce degli altri. Con una passione peraltro molto vicina alla cristiana compassione, anche se Dagerman è anarchico.
Nel 2007 questo libro per me è stato la sbalordita scoperta del Dopoguerra dei vinti. Allora la mia però era una pietà, come dire, tranquilla: da noi, pensavo, anzi ne ero certa, non sarebbe mai più accaduto. Oggi, 2024, non ne sono più altrettanto convinta. Due incendi divampano alle soglie dell’Occidente, sempre più grandi. Noi cerchiamo di non pensarci – sono lontani, crediamo non ci riguardino. Davvero? Diciassette anni dopo questo libro mi fa più male. Angoscia: chi ci ha promesso la pace per sempre, quella di cui godiamo da ottant’anni, due generazioni? Pagine che suscitano un dubbio, che svegliano da una sorta di incredulo oblio.
Dagerman, autore di romanzi di successo, si ammalò di depressione e si suicidò a 31 anni. Che perdita. Quanta altra umanità ci avrebbe potuto raccontare, in quel suo modo straordinario.

Stig Dagerman, Autunno tedesco. Viaggio fra le rovine del Reich millenario, 1947
Dell’edizione Lindau del 2007 di cui scrive Marina Corradi si può trovare ancora qualche copia usata qui, oppure qui nella riedizione del 2014.
Nel 2018 il libro è stato ripubblicato da Iperborea: potete trovarlo qui.
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