
Il Covid 19 non è per niente green

Il Covid 19 è molto meno “green” di quanto è stato descritto. Gli ambientalisti che hanno prematuramente esultato per il lockdown e la drastica riduzione di attività umane tra febbraio e giugno, non hanno fatto bene i loro calcoli. Se da una parte le emissioni globali di CO2 sono calate, e molto, a causa della chiusura di migliaia di industrie, la minore richiesta di energia ha prodotto altri effetti poco desiderabili.
ECONOMIA BATTE ECOLOGIA
Il crollo del prezzo del petrolio, ad esempio, ha reso questa fonte di energia ancora più attraente rispetto alle alternative più pulite e più costose. E se la diminuzione del traffico aereo ha portato le compagnie ad acquistare meno quote all’interno del Sistema per lo scambio delle quote di emissione (Ets Ue), il prezzo dei crediti è calato in modo vertiginoso, rendendo l’inquinamento più conveniente in altri settori, come quello della produzione del cemento.
Il Covid 19 ha danneggiato la causa ambientalista anche per un altro motivo, spiega l’opinionista di Bloomberg Andreas Kluth: «Nonostante Ursula von der Leyen abbia dichiarato che la decarbonizzazione e il Green Deal sono fondamentali, l’ecologia è scesa sotto l’economia nell’ordine delle priorità». Durante il discorso sullo stato dell’Unione, la presidente della Commissione europea ha dichiarato che il 37 per cento delle risorse del Recovery Fund dovrà essere speso per progetti che rientrino nel Green Deal. Inoltre, ha spiegato che la riduzione delle emissioni dovrà raggiungere il 55% entro il 2030.
DUE BATTAGLIE DIFFICILI DA CONCILIARE
Secondo Kluth «gli economisti non sono convinti che due diverse battaglie – contro la recessione e contro il global warming – possano essere combattute con gli stessi strumenti». Infatti, spiega, «limitare i cambiamenti climatici richiede il rialzo del prezzo del carbonio, che fa aumentare il costo dell’energia e quindi mina alla base la ripresa economica. Elargire sussidi per i prodotti green implica un aumento del debito pubblico e delle tasse, che prima o poi danneggia domanda e consumi».
Secondo Kluth, se l’Unione Europea volesse davvero conciliare le due battaglie, dovrebbe espandere il Sistema per lo scambio delle quote di emissione a tutti i tipi di emissioni di CO2 dell’Ue (ora ne copre soltanto il 45%) e devolvere i proventi per finanziare strumenti come il Recovery Fund. Così, «i soldi presi a chi inquina verrebbero trasformati in stimoli all’economia». Inoltre, nel lungo termine, dovrebbe ridurre il numero di quote da acquistare così da emettere sempre.
LA CINA FA IL DOPPIO GIOCO
Bruxelles sarebbe così davvero da esempio per tutto il mondo. Resta però un problema di fondo. La battaglia ai cambiamenti climatici non si può combattere in solitaria: «L’Unione Europea e il Regno Unito insieme producono appena il 10 per cento delle emissioni globali. Per diminuirle, quindi, è necessario convincere altri paesi, a partire da Cina e Stati Uniti, a farlo». Altrimenti, lo sforzo potrebbe essere inutile.
Da questo orecchio, però, Pechino non ci sente. Nonostante abbia recentemente promesso a Bruxelles che raggiungerà la neutralità climatica nel 2060, secondo un nuovo studio del Global Energy Monitor il Dragone sta costruendo centrali a carbone per aumentare la propria capacità netta di 97,8 gigawatt e ne ha in cantiere altre per un totale di 151,8 gigawatt. Sommando i cantieri ai progetti si ottiene una capacità di 250 Gw, superiore cioè a quella attuale degli Stati Uniti. Una prospettiva decisamente poco incoraggiante.
Foto Ansa
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