Negli anni Settanta Augusto Del Noce ha descritto in modo mirabile lo sforzo del Pci, alla scuola di Gramsci, di egemonizzare culturalmente la società; l’esito era stato un vero e proprio “mutamento del senso comune”. Del Noce spiegava come funzionale a tale strategia fosse la sostituzione al tradizionale avversario capitalistico-borghese dell’avversario “fascista”: il Pci creava il “mito del fascismo”, e attraverso questa trasfigurazione il concetto di fascismo veniva dilatato fino a ricomprendere chiunque fosse contrario al comunismo, pur non avendo nessuna simpatia per Mussolini. Giudice in ultima istanza restava il Partito comunista, che – direttamente o attraverso le sue cinghie di trasmissione nel corpo sociale – conferiva o negava patenti di legittimazione politica e culturale.
Sono trascorsi quarant’anni. Al Pci e ai suoi eredi sono crollati addosso muri e miti, e gli ambiti decisionali sono sempre più ristretti, specie in economia. Per dimostrare la propria esistenza in vita resta solo l’affermazione del più assoluto relativismo: Hollande insegna a non farsi illusioni su ipotetici accordi che limitino il danno. È in corso una operazione ideologica che ha analoghe pretese egemoniche: con una sorta di transfert al “mito del fascismo” si sostituisce il “mito dell’omofobia”, e in quest’ottica “omofobo” non è chi offende una persona per le sue tendenze omosessuali, ma chiunque ritenga un valore la famiglia fondata sul matrimonio uomo-donna, la famiglia aperta alla vita, la trasmissione della vita attraverso la procreazione naturale.
È “omofobo” chi, pur con argomenti ragionevoli, dissente dall’ortodossia del gender. Già adesso gli va impedito di parlare, va escluso dagli ambiti accademici. È una declinazione concreta, molto evidente, della dittatura del relativismo. Basta saperlo, per regolarsi di conseguenza.