I tifosi del Wolverhampton sono commoventi, i paragoni con Genova un po’ meno
«Que sera, sera…». Il nostalgico saluto di Wolverhampton alla Premier League ha tinte che vanno dal romantico al fatale. Ieri la sconfitta per 2-0 contro il battagliero Manchester City ha segnato l’aritmetica retrocessione in Championship dei Wolves, ma sugli spalti non ci sono state contestazioni, nonostante il verdetto arrivi al termine di una stagione durissima. Sciarpe al vento, cori di sostegno e qualche lacrima: un quadro che fa venire la pelle d’oca. Pochi chilometri più a sud, a Portsmouth, un’altra immagine simile: la squadra locale perde 1-2 in casa col Derby e scivola ancora più giù, in League 1. Ma la vicinanza del pubblico è grande, nonostante il comprensibile risentimento per la sempre più prossima promozione dei cugini del Southampton in Premier League: la crisi economica del club e i 10 punti di penalizzazione sono un motivo più che valido per andare ogni week-end dietro a quella squadra. Ieri abbiamo avuto così due immagini da brividi, che valgono più di qualsiasi trattato sul tifo inglese.
Sì, perché i fatti di Wolverhampton sono stati paragonati da tanti giornali a quelli di Genova, dove la violenza ultras si rifiutava di vedere la propria squadra perdere 4-0 contro il Siena, in un match decisivo per la permanenza in Serie A. Un paragone calzante, ma secondo me incompleto e, in parte, strumentalizzato: non ci si è fermati abbastanza sulle immagini di Wolverhampton, ma ci si è serviti di esse solo come contraltare, per cadere troppo rapidamente nel cliché dell’Italia paese di merda, dove mai vedremo scene simili di sportività. L’intento del paragone era solo quello di denigrare i tifosi di Genova: le lacrime di quei supporters inglesi sono state ricordate solo per questo, e non per celebrare effettivamente l’autenticità e la grandezza del tifo d’Oltremanica.
Sarà perché è la patria del calcio, o perché c’è una cultura sportiva unica nel suo genere, o forse perché il pallone marchiato UK ha sempre un ingrediente segreto, ma il modo di vivere il calcio in Inghilterra è unico. È inutile dire che l’Italia deve imparare. La passione sportiva non si apprende sui banchi, né con tante iniziative pro-fair play che lasciano il tempo che trovano. Sono due calci diversi, e quello inglese va ammirato e basta: non permettiamoci di annotare le cose che dovremmo imparare, perché sarebbe una lista infinita di differenze. Il pallone è un’arte, e i suoi protagonisti sono pittori che hanno ricevuto il genio in dono. È un talento di natura, che può crescere e svilupparsi, ma non si può pretendere che assuma caratteristiche che non ha. Sarebbe come chiedere a Carracci di fare Caravaggio: d’influenza ce ne potrà essere tra i due, ma il naturalismo del primo non c’entra nulla col realismo del secondo. E le Pietà che hanno reso celebre il primo saranno anche belle, ma non sono nulla in confronto agli affreschi del secondo.
Ok, forse sono caduto in un paragone un po’ azzardato, ma rende bene l’idea della differenza tra le due culture calcistiche. Celebriamo quindi una volta in più la cultura da stadio inglese, e non per sparare contro quella italiana. Il clima che si respira nelle arene d’Oltremanica è qualcosa di unico. L’amore per la propria squadra di calcio è una vera e propria appartenenza, che s’impara fin da piccoli: anche ieri a Wolverhampton abbiamo visto sventolare colori che valevano più di qualsiasi risultato, applaudendo giocatori fieri di indossare una maglia. E dire che, nel frattempo, a Genova c’era qualcuno che se la sfilava da solo, aggiungendo umiliazione a umiliazione. In una scena che, credo, a Londra non vedremo mai.
colpodireni.wordpress.com
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