I problemi del testamento biologico
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Il caso di Terri Schiavo negli Stati Uniti e di Eluana Englaro in Italia, soltanto per citare due dei casi drammatici tra quelli analoghi più celebri che sono all’un tempo incarnazioni e narrazioni di sofferenza fisica, psicologica, morale ed esistenziale, hanno insegnato quanta importanza possa avere la volontà del paziente nella definizione di ciò che deve o non deve farsi alla fine della vita o in prossimità della stessa.
Il problema per quei casi fu proprio che la volontà non fu accertata inoppugnabilmente, ma soltanto tramite testimonianze, dopo molto tempo, in modo indiretto, cioè mettendo in essere quello che è stato definito, appunto, “consenso presunto”, ovvero il consenso che si può ricostruire conoscendo le idee del paziente anche se quest’ultimo non è riuscito ad esprimere la propria volontà in maniera chiara ed univoca.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Da qui, principalmente, sorge la necessità di avere uno strumento che possa non solo evitare anni di casi giudiziari e spese legali e sofferenze di ogni genere, ma anche e soprattutto che possa evitare ricostruzioni equivoche, in un senso o nell’altro, della volontà del paziente in determinate circostanze del suo stato.
Il testamento biologico, quindi, si offre come strumento per la definizione di queste volontà, potendo assumere o la veste più rigida e formale, appunto, del classico “testamento biologico”, oppure quella più “semplificata” delle cosiddette “dichiarazioni anticipate di trattamento”.
Ma il problema è proprio questo.
Perché creare una figura ad hoc se è già possibile manifestare le proprie “volontà biologiche” in un ordinario testamento?
Il testamento, come si sa, è lo strumento con cui si dispone della propria sfera patrimoniale per il tempo in cui non si sarà più in vita, ma se è vero che le disposizioni ordinarie e più numerose di un testamento sono e possono essere di carattere patrimoniale, cioè riguardo agli averi del testatore, è anche pur vero che la legge, cioè l’attuale disciplina del Codice Civile, consente un amplissimo catalogo di disposizioni non strettamente patrimoniali, come per esempio la nomina di un esecutore testamentario (art. 700), la designazione di un tutore per un parente interdetto (art. 348), il riconoscimento di un figlio naturale (art. 254), le disposizioni a favore dell’anima (art. 629), le disposizioni per il proprio funerale, per la destinazione dei propri organi, per la destinazione del proprio cadavere, le disposizioni per i propri gameti o embrioni crioconservati e così via.
Ciò che si richiede, a livello minimale, per questo tipo di disposizioni testamentarie di carattere non patrimoniale è comunque lo stesso rispetto, oltre della specifica disciplina di ciascuna di esse, anche dei criteri generali comuni ad ogni altra disposizione testamentaria, così come ad ogni volontà giuridicamente rilevante, cioè la non violazione di norme imperative, ordine pubblico e il buon costume.
Ciò considerato, appare evidente che già l’ordinario testamento può contenere “volontà biologiche”, sebbene l’ordinario testamento non possa produrre effetti prima della morte del testatore.
Ecco una delle grandi differenze tra il testamento ordinario e il più “tecnico” testamento biologico il quale, invece, è deputato ad esplicare la propria efficacia prima della morte del testatore proprio perché, per esempio, contenente le volontà del paziente in ordine al tipo di terapia a cui si vuole o non si vuole sottoporre, al tipo di interventi chirurgici che desidera o non desidera subire, al tipo di esami diagnostici ecc…
Il tema più problematico è semmai entro quali limiti e confini il paziente può esprimere la propria volontà, cioè se le disposizioni del testamento biologico trovino nel criterio generale dell’ordinamento – cioè non violazione di norme imperative, ordine pubblico e buon costume – un limite o se tale limite non sia valido per il testamento biologico che quindi non solo avrebbe una portata ben più ampia dell’ordinario testamento, ma forse potrebbe, secondo una certa visione da alcuni propugnata, non avere proprio alcun limite.
In tale prospettiva, se cioè la volontà contenuta nel testamento biologico non può essere assoggettata a limiti e restrizioni e deve quindi essere assoluta fino a poter ricomprendere anche opzioni eventualmente suicidiarie, eutanasiche passive o attive, che senso e che giustificazione conserverebbe lo stesso strumento del testamento biologico? Non si farebbe meglio e prima, senza infingimenti, a depenalizzare direttamente l’eutanasia?
Ma sarebbe così facile? Normativamente e politicamente forse sì, ma giuridicamente sicuramente no. Infatti, viene da chiedersi se ci si possa sbarazzare del diritto ogni volta che esso viene ad urtare contro i nostri desideri, le nostre ambizioni, le nostre aspirazioni, le nostre esigenze. Che ne sarebbe di una realtà priva di diritto o con un diritto a corrente alternata?
Con tutta evidenza, allora, si cerca di introdurre surrettiziamente la legalizzazione delle pratiche eutanasiche sotto le mentite spoglie del testamento biologico, soltanto per una semplice, ma astuta cosmetica del “prodotto” da presentare all’opinione pubblica.
Tuttavia, in un tale scenario, proprio come insegna la storia più recente del XX secolo, il diritto diviene il mero strumento della formalizzazione di qualsiasi volontà, anche quella che dovesse contrastare con i principi della giustizia, come per esempio il neminem laedere, che riguarda tanto gli altri quanto se stessi, cessando di essere espressione di quella universalità e indisponibilità che invece caratterizzano la natura del diritto, cioè, in sostanza, della razionalità umana, come ha notato S. Agostino: «Gli uomini credono che non vi sia giustizia, perché vedono che i costumi variano da gente a gente, mentre la giustizia dovrebbe essere immutabile. Ma essi non hanno compreso che il precetto: non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te, non è cambiato mai, è rimasto costante nel tempo e nello spazio».
Il diritto in questa prospettiva viene ridotto definitivamente alla inutilità, al silenzio, incapace di esprimere, anche per mezzo dei suoi divieti e dei suoi vincoli, quel senso di autentica libertà che esiste soltanto all’interno dei limiti, cioè dei “no”, da esso posti, rischiando così di legalizzare non soltanto l’eutanasia volontaria, ma ben presto – come insegna proprio l’esperienza dell’Olanda degli ultimi anni – anche quella non volontaria, cioè l’uccisione di un altro essere umano senza il suo consenso, poiché come ha ricordato Albert Camus, «dire di sì a tutto implica che si dica sì all’omicidio».
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