
C’è una storia che corre parallela a quella raccontata settimana scorsa al Meeting di Rimini da una delle più belle mostre presenti in fiera, “Il potere dei senza potere. Interrogatorio a distanza con Václav Havel”, promossa dalla Fondazione Costruiamo il futuro e curata da Ubaldo Casotto e Francesco Magni. E la storia è quella dei “dissidenti italiani”, così come ci piace chiamarli, che i testi dei loro omologhi orientali fecero arrivare qui da noi, a costo di numerosi guai e nell’incomprensione dell’Occidente, che tanto amava (e ama) riempirsi la bocca di diritti civili e poi non sapeva (e sa) riconoscerli là dove fioriscono.
Amici italiani
Rimettiamo le cose in ordine. La mostra di Rimini racconta, a quarant’anni dalla pubblicazione dell’opera di Havel e a trent’anni dalla Rivoluzione di velluto, la figura del celebre dissidente cecoslovacco, la sua vita, il suo pensiero, le sue idee. È una mostra bellissima, per intensità e contenuto, molto attuale e chi non l’ha vista potrà farlo prossimamente perché la rassegna è itinerante e girerà mezza Europa.
Ma, appunto, dicevamo, c’è una storia nella storia, cui la mostra di Casotto e Magni accenna ed è quella degli “amici italiani” che i testi della dissidenza fecero arrivare in Italia, li pubblicarono, li studiarono, si diedero da fare perché il pigro mondo culturale occidentale che, a quel tempo, diciamolo, stava coi regimi oppressori, si desse la briga di considerare.
Vivere nella verità
Quegli “amici”, tutti ruotanti attorno alle figure carismatiche e incendiarie di don Luigi Giussani e Francesco Ricci, erano anche loro degli incompresi fuori sincrono rispetto al ritmo dominante del loro tempo, solo che di qua, in un mondo libero per modo di dire, schiavo di un’ideologia magari non violenta come il comunismo, ma comunque velenosa come sa esserlo ogni pensiero omologante che tutto appiattisce e tutto livella.
Se di là, oltre la Cortina di ferro, c’erano uomini che rischiavano la vita, finivano in carcere, spiati e uccisi solo per «vivere nella verità e non nella menzogna», di qua, a Rimini, ruotanti intorno alla rivista Cseo, c’era un manipolo di giovani universitari che operava perché quella voce avesse la possibilità di essere ascoltata.
Far ubriacare la spia
Fra queste persone c’era Annalia Gugliemi che racconta a tempi.it: «Don Francesco Ricci era un uomo di una curiosità assoluta. Già negli anni Sessanta s’era messo in testa di scoprire cosa fosse quella “Chiesa del silenzio” di cui si iniziava a parlare e così mandò una ragazza in Ungheria. La ragazza arrivò in treno a Budapest e trovò sulla banchina un sacerdote che, da anni, tutti i giorni, si recava in stazione con la sola speranza di incontrare qualcuno dell’Ovest. Iniziò tutto così, per caso o per provvidenza». Ricci e don Giussani cominciarono negli anni successivi a mandare quei giovani universitari nei paesi dell’Est comunista: «Io – racconta Guglielmi – ci andai per la prima volta nel 1973. Eravamo accompagnati da una guida-spia che una notte dovemmo far ubriacare per avere qualche ora libera e incontrare un gruppo di intellettuali che si sentivano oppressi dal regime. Vivevano in isolamento totale e in povertà. Con loro stabilimmo i primi contatti e rapporti di amicizia».
Mangiare i bigliettini
Il raggio d’azione di quei giovani si allargò, come per gemmazione, a tutti i paesi dell’Est, Romania, Polonia, Russia, fino alla Cecoslovacchia. «Per loro era fondamentale far sentire la loro voce, far sapere che esisteva una nota dissonante da quelle diffuse del regime. Si fidavano di noi perché percepivano che il nostro interesse non era ideologico, ma umano e, quando capitava, anche di sintonia per la comune fede cattolica. Non si sono mai sentiti usati da noi».
Iniziò una rischiosa e avventurosa storia di passaggio dei testi. Fogli di carta velina venivano trasportati nelle maniere più fantasiose dentro scatole di cioccolatini o giacche a vento foderate per eludere i controlli doganali. Non sempre l’operazione aveva successo: a volte a quei ragazzi capitava di arrivare sul confine ed essere rispediti a casa dai doganieri che avevano trovano negli anfratti più impensati delle automobili i ciclostili opportunamente smontati. Qualche volta toccò loro ingerire i bigliettini su cui erano segnati gli indirizzi cui portare il materiale. Meglio un po’ di mal di stomaco piuttosto che rischiare la persecuzione di qualche amico dell’Est.
Parlarsi attraverso un tubo
«Una volta – riprende Guglielmi – mi recai a casa del vescovo clandestino di Bratislava. Mi fece accomodare, accese la tv, prese in mano un tubo e iniziò a parlarci dentro mentre io lo tenevo appoggiato all’orecchio. Tutto intorno al suo appartamento erano posizionati i microfoni del regime. Era questa la situazione in cui vivevano queste persone».
Su Libero, il giornalista Renato Farina ha raccontato la sua esperienza:
«In viaggio di nozze, nel giugno del 1979, andai a Praga. Fui controllato e trattato malissimo. Multato per false ragioni. Di notte mi tolsero il tappo della benzina della mia povera Renault. Fecero sparire i voucher dell’hotel. Capii che non era il caso di incontrare nessuno. Mi avevano già schedato come giornalista. Ci tornai, incosciente ammetto, coi bimbi piccolissimi, nel 1987, ci portarono via i passaporti con un pretesto. Multa e fuori dai confini entro sera».
«Questi sono dei nostri»
Erano anni così. «Nel 1984 – racconta ancora Gugliemi – incontrai Havel e gli consegnai una copia del Potere dei senza potere che avevamo tradotto in italiano nel 1979. Gli dissi che in Italia c’erano centinaia e centinaia di giovani che non solo leggevano, ma anche meditavano quel suo testo. Ne fu stupito. Non sapeva nemmeno che fosse stato tradotto e fu commosso dal sapere che aveva degli “amici” in Italia».
La parola “amicizia” è ricorrente ma non per caso. Quando il giornalista del Sabato Luigi Amicone si recò a Praga nel 1989 arrivò a ridosso di piazza San Venceslao dove si trovava Havel coi suoi sodali, ma fu bloccato dai guardaspalle. Amicone allora sventolò una copia del libro nella traduzione di Cseo. Havel capì e disse alle sue guardie del corpo: «Questi sono dei nostri, sono amici, hanno la precedenza su tutti». La copia di quel libro che Havel autografò con tanto di cuoricino è esposta tra i pannelli della mostra.
Non conformatevi!
Mentre si sviluppava questa storia di “amicizia”, cosa accadeva ai testi dei dissidenti in Italia? Come venivano accolti? «Nel nostro mondo universitario avevano una grande diffusione», dice Guglielmi, «ma all’esterno erano sostanzialmente ignorati. Fino all’elezione di Giovanni Paolo II, che cambiò un po’ le cose e la mentalità, quei testi non venivano nemmeno presi in considerazione. Dentro l’università ci chiamavano “clericofascisti”, all’esterno le grandi case editrici, i mass media, il mondo intellettuale ci snobbava. Il clima era condizionato dal pensiero di sinistra, anche dentro la Chiesa dove in quegli anni dominava la cosiddetta Ostpolitk».
Ripensando a quel periodo, Gugliemi ha la consapevolezza di aver vissuto a contatto con «giganti della cultura e della fede, persone che hanno dimostrato che si può essere liberi qualunque siano le condizioni date». Alla mostra si può ammirare anche il testo originale scritto su carta velina della Lettera ai cristiani d’Occidente di Josef Zverina, un testo profetico e attualissimo in cui il teologo ceco invitava i cristiani del “mondo libero” a «non conformarsi». Un pericolo sempre ricorrente, ad Est come ad Ovest, fuori e persino dentro la Chiesa. La libertà è sempre da riconquistare. Come disse Havel a quegli amici che andarono a trovarlo nei giorni seguenti alla sua ultima scarcerazione: «Guardate che la nostra situazione è la situazione che conoscerete voi tra vent’anni».