Un capolavoro si misura dal tempismo o dalla durata? Per la seconda serve qualche lustro, sul primo fattore Michel Houellebecq è già “lo” scrittore del 2015. Prima ancora che sia disponibile l’edizione italiana (Sottomissione, Bompiani, in libreria dal 15 gennaio), della trama si è già scritto a sufficienza perché ci si possa sostenere una conversazione senza aver letto il libro. Tempi lo ha fatto per voi in francese, e dunque: professorino malaticcio e svogliato votato a Huysmans, François (altro non si sa) si disinteressa di politica nella Francia futuribile spennellata da Houellebecq. Scopicchia qua e là senza impegni, fin quando non è la politica a interessarsi di lui, portando all’Eliseo Mohamed Ben Abbes, leader della Fratellanza musulmana sostenuto al ballottaggio del 2022 da tutto l’arco costituzionale (Ump, socialisti e liberali del redivivo François Bayrou, che diventa premier) pur di far fuori il “pericolo nero”, Marine Le Pen.
Lo volesse o meno l’autore, Ben Abbes è il “padrone del mondo” di Robert Hugh Benson. Affascinante, cosmopolita, democratico, europeista, anche se il suo rinnovato vecchio continente guarda a sud, al Mediterraneo, al Medio Oriente, alla Mecca. È un politico raffinato e colto, nuovo ma rassicurante, che «ipnotizza e rammollisce» anche i giornalisti più rompiscatole. È in ottimi rapporti con tutte le religioni, persino con quel manipolo di cattolici rimasti cui concede scampoli di autorità morale da dispensare alla bisogna.
Ma qui non importa raccontare la Sorbona, la Francia e il continente intero morbidamente islamizzati del libro; l’addio alle gonne e alla croce, col partito musulmano che si prende “solo” il ministero dell’educazione, e gli altri se li spartiscono quelli delle larghe intese; né come tutto questo avvenga senza clamori, rivolte, guerre, in una società così spappolata che si consegna con arrendevole curiosità all’élan vital islamico. Quel che interessa è lo sguardo di cui degnare questo futuro possibile: un Occidente che abbia concluso la traiettoria del suo etimo, cioè quello di cui davvero tratta il romanzo, ficcandoci sesso, cultura, storia, costume, politica: la vita.
Benson guardava Giuliano Felsemburgh, padrone di un mondo non troppo diverso da quello di Houellebecq, con spes contra spem. Col giudizio di un Bene destinato a vedersi nel buio più tetro, e col gusto della battaglia apocalittica perché quotidiana, carnale, qui e ora. La grandezza del francese è invece la corrosiva compostezza con cui inscena la disfatta. Un collasso silenzioso, accettato, del quale non dice mai se sia cattivo o commendevole, e per questo lascia senza fiato: tocca chiederselo da sé.
Il dibattito sul libro è partito prima dell’uscita in Francia, e dunque prima della mattanza di Parigi che ne ha cambiato per sempre il senso: il volume è andato in libreria il 7, nelle ore in cui gli Ak47 sparavano alla redazione di Charlie Hebdo. Sul Corriere della Sera del giorno prima, Emmanuel Carrére aggiungeva molto di suo al feroce e distaccato affresco del collega recensito: «Non è impossibile», ha scritto, «che l’islam più o meno a lungo termine non rappresenti il disastro ma l’avvenire dell’Europa, come il giudeo-cristianesimo fu l’avvenire dell’Antichità». Nel Pantheon d’Occidente, quindi, entri pure l’islam: farà bene a loro, che smusseranno certe asperità, e pure a noi, infiacchiti postmoderni cui lassù non è rimasto manco Dio.
Uno potrebbe dire che i morti di Parigi mettono una pietra tipo Everest sull’ipotesi: ma siamo sicuri? Quanto peseranno quei cadaveri nelle scelte dei governi su immigrazione, società, educazione? C’è qualcosa da difendere o tanto vale venire ragionevolmente a patti con coloro che sono «risoluti a restare estranei alla nostra umanità, individuale e associata, in ciò che ha di più essenziale, di più prezioso, di più laicamente irrinunciabile» (così il cardinal Biffi nel 2000: duemila)? In fondo, è di questo che parla Houellebecq, e di questo parla Charlie Hebdo. Ed è di questo che ci conviene parlare.