Guerra in Israele, “sperando contro ogni speranza”
«Di che carne siete fatti?» ha chiesto disperata la nostra amica Angelica ai terroristi di Hamas. Angelica è anima pacifica, vive nel kibbutz Sasa nell’Alta Galilea, da sempre è impegnata a favore del dialogo e della riconciliazione tra il popolo ebraico e quello palestinese. Più di vent’anni fa pubblicammo con lei un libretto – Un sì, un inizio, una speranza – che sin dal titolo cercava di formulare una parola diversa dal rancore, dal risentimento, dalla vendetta.
Poi però i terroristi di Hamas sono planati sul rave party nel deserto del Negev, hanno fatto strage di giovani nella festa ebraica di Sukkot, hanno sfondato porte di case e scaricato colpi di mitraglia su donne, vecchi, uomini e bambini. Erano le 6.30 della mattina: i neonati dormivano nelle loro culle, i miliziani hanno sparato loro in testa. Ora ci dicono che i guerriglieri di Hamas avevano assunto pastiglie di captagon, la droga della jihad, ma si fatica comunque a credere che si possano compiere atti simili anche quando la mente è annebbiata.
Amare la morte più della vita
C’è stata la risposta di Israele, le bombe su Gaza e il missile sull’ospedale nella Striscia che pare essere stato lanciato dalla Jihad islamica. Dolore chiama dolore. E parole di odio abbiamo sentito pronunciare dai capi di Hamas, dai capi di Hezbollah, dalle piazze (arabe e occidentali) che ripetono con diverse sfumature quella minaccia jihadista che pare invincibile: «Noi amiamo la morte più di quanto voi amiate la vita».
È una lotta impari, così. Come si può sconfiggere chi è disposto a sacrificare il proprio popolo e i propri figli pur di annientare il nemico? Come si può sperare di averla vinta contro chi ringrazia dio se il figlio si fa esplodere su un autobus o perisce in battaglia uccidendo il maggior numero di nemici? Nella concezione cristina il martire è chi sacrifica se stesso per salvare l’altro, qui è chi si uccide per annientare l’altro.
I cristiani di Gaza
Per trovare un sì, un inizio, una speranza bisogna aggrapparsi ad eventi minimi, che non avvengono sul palcoscenico della storia, ma ai suoi margini. Come le storie dei padri che con il proprio corpo hanno fatto scudo ai figli, mentre i diavoli di Hamas li crivellavano di colpi. O come la storia raccontata dalla piccola, insignificante, minuscola comunità cristiana di Gaza, vaso di coccio tra vasi di ferro, «oasi di umanità e accoglienza – come ha raccontato il Giornale – nel deserto spianato dai fondamentalisti islamici».
Qui, nel quartiere al-Zaytun, a est della città palestinese, ogni giorno si recita il rosario, si accolgono i senza tetto, i “senza niente”, musulmani o cristiani che siano, senza usare la religione come arma per uccidere. Non è sempre così, a parti invertite. Loro, i cristiani, sono i kfir, gli infedeli.
Sono circa un migliaio di cristiani, duecento i cattolici, gli sfollati accolti oltre 500. Il parroco, don Gabriel Romanelli, ha raccontato che «le persone in tutta la Striscia di Gaza sono disperate e cercano qualsiasi luogo che possa sembrare loro più sicuro. Tutto è sovraffollato. E molte persone vagano per le strade con i loro figli e poche cose al seguito, cercando rifugio. La guerra distrugge tutto. Preghiamo per la sua fine».
L’incontro con Pizzaballa
Un sì, un inizio, una speranza sono le parole così semplici e inconsuete con cui il cardinale Pizzaballa ha offerto se stesso in cambio degli ostaggi. Non c’è occasione in cui non abbia detto in maniera chiara che la situazione è drammatica, non ha mai nascosto nulla, non ha mai finto di avere facili soluzioni in tasca. «Se sapessi come si arriva alla pace, avrei il Nobel», ha detto. E che la vera domanda da porsi non è «dov’è Dio?» («Lui è qui, presente»), ma «dov’è l’uomo?».
Sabato 28 ottobre alle ore 16.00, al Rosetum a Milano, parleremo con lui di tutto questo. Dell’orrore, dei morti, dei bambini uccisi in culla, dei cristiani di Gaza. Soprattutto parleremo della “virtù bambina”, come la chiamava Péguy. Perdere la speranza è l’unico peccato imperdonabile.
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