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Gran Bretagna al voto, ma la culla della democrazia si è rotta. Ecco perché è in crisi

Alla vigilia delle elezioni britanniche del 7 maggio i sondaggi sono spietati. Disinteresse per la politica e disaffezione per il voto sono ai massimi storici. Conservatori o laburisti non governeranno (mai più) da soli

Rodolfo Casadei
02/05/2015 - 2:30
Esteri
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Pubblichiamo l’articolo di Rodolfo Casadei contenuto nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Era il modello per le democrazie di tutto il mondo, il suo parlamento onorato come un’istituzione sacra e il suo edificio – il Palazzo di Westminster – venerato come un tempio, il suo bipartitismo di fatto indicato come un obiettivo per tutte le democrazie mature, la sua legge elettorale esaltata come lo strumento che permetteva agli elettori di sapere subito all’indomani del voto chi avrebbe governato e di avere un rapporto personale e fattivo col loro rappresentante a Londra. Oggi non più.

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Alla vigilia delle elezioni politiche del 7 maggio la Gran Bretagna è una democrazia in crisi: è già certo che dal voto non uscirà alcuna maggioranza solida e probabilmente si dovrà costituire un governo di minoranza, il bipartitismo è morto, il sistema elettorale uninominale maggioritario ha finito per produrre effetti perversi (il Partito nazionale scozzese, Snp, può conquistare 56 seggi col 4 per cento dei voti, mentre l’Ukip dato nei sondaggi al 13 per cento rischia di non portarne a casa nemmeno uno), la disaffezione degli elettori per il voto e più in generale il disinteresse dell’elettorato per la politica hanno raggiunto i massimi storici dal secondo Dopoguerra in tutte le inchieste.
Fioccano proposte provocatorie di autorevoli commentatori, come quella di spazzare via tutti i partiti esistenti (lo scrittore Peter Hitchens), di staccare l’Inghilterra dalla Scozia non per dare soddisfazione ai nazionalisti scozzesi ma per salvare la democrazia nella prima (l’economista Martin Wolf), di prendere atto che «i bisogni della nostra democrazia sono in contraddizione con quelli di una sana gestione economica» (l’imprenditore discografico e barone James Palumbo).

I sondaggi parlano chiaro: nessuno dei due partiti che dal 1918 si alternano alla guida del governo britannico (con l’unica eccezione di una coalizione in tempo di pace nel 1931), il Conservatore e il Laburista, uscirà dalle urne con la maggioranza assoluta dei seggi. E sarà la seconda volta di seguito che succede, un fatto senza precedenti. Nel 2010 i conservatori, guidati da David Cameron, hanno vinto le elezioni col 36,1 per cento dei voti e conquistato 306 seggi contro i 258 dei laburisti. Per disporre di una maggioranza assoluta alla Camera dei Comuni (650 scranni) hanno costituito una coalizione col partito Liberaldemocratico che ne aveva ottenuti 57: una cosa che a Londra non si vedeva dai tempi di Winston Churchill, cioè della Seconda Guerra mondiale.

Oggi però i sondaggi danno i liberaldemocratici in caduta libera: i loro voti sembrano destinati a passare dal 23 per cento del 2010 all’8 per cento appena, e i loro seggi a più che dimezzarsi. Anche conservando la consistenza parlamentare della passata elezione (ma i sondaggi indicano una flessione di voti e di seggi) i conservatori non potranno governare coi liberaldemocratici. I quali nel frattempo sono corteggiati dai laburisti (non dal segretario Miliband, ma da emissari) in vista di un ribaltone post-voto, col passaggio dall’alleanza conservatori-libdem a un governo di coalizione labour-libdem, ovvero a un sostegno esterno libdem a un governo di minoranza laburista.

Dulcis in fundo, il Partito nazionale scozzese, quello che aveva voluto il referendum poi perso nel settembre scorso per la secessione della Scozia dal Regno Unito, si offre insistentemente ai laburisti per la creazione di un governo di coalizione che potrebbe anche avere i numeri e che si collocherebbe molto, molto a sinistra: l’Snp è il partito che più di tutti critica i tagli di spesa avvenuti sotto il governo Cameron, propone di rinazionalizzare poste e ferrovie, aumentare di molto le tasse per i più ricchi, estendere il welfare state e rinunciare al nucleare militare britannico (il programma Trident).

L’Economist ha definito il suo programma «la seconda più lunga lettera di suicidio della storia» (la prima, definita in quei termini dal laburista moderato Gerald Kaufman, resta il programma di 16 mila parole del partito Laburista per le elezioni del 1983, quelle che videro il trionfo di Margaret Thatcher). Il leader del Labour Miliband esclude un’alleanza fra il suo partito e quello degli indipendentisti scozzesi (che fanno campagna con lo slogan “Più forte per la Scozia”), ma gli allibratori non sono d’accordo, e danno un’alleanza labour-Snp come più probabile di un’alleanza labour-libdem.

L’ironia del Financial Times
Commentatori ed elettori osservano costernati: le elezioni del 2010 non sono più considerate un’eccezione, il Regno Unito sta per diventare un paese dove non solo si governa in coalizione nonostante il sistema uninominale maggioritario pensato per favorire esiti elettorali univoci e stabilità di governo, ma dove le coalizioni vengono decise dopo, e non prima delle elezioni, in barba alla volontà degli elettori. Proprio come in Italia, si dispera il Financial Times.

Come è arrivata a questo punto la madre delle democrazie parlamentari moderne, il sistema di istituzioni considerato come il gioiello e il punto di riferimento della cultura politica occidentale? Ci sono cause congiunturali e cause di lungo periodo. Alle prime appartiene la diffusa convinzione secondo cui il governo guidato da David Cameron non ha fatto abbastanza bene da meritare una riconferma, ma i suoi avversari non sono abbastanza credibili da poterlo sconfiggere nettamente alle elezioni; alle seconde un distacco dalla politica e dai suoi meccanismi di rappresentanza che data almeno dall’inizio di questo secolo, e che la Hansard Society (un istituto con sede a Londra che dal 1944 studia l’evoluzione della democrazia rappresentativa) ha fotografato molto bene nel suo Audit of Political Engagement. Un dato su tutti: solo il 61 per cento dei britannici è d’accordo con l’affermazione «il parlamento è essenziale per la nostra democrazia».

Così, a colpo d’occhio, i conservatori di Cameron in condominio coi liberaldemocratici di Nicholas Clegg non hanno fatto male: nei cinque anni di governo hanno creato 2 milioni di nuovi posti di lavoro, abbassando il tasso di disoccupazione dall’8 al 5,5 per cento; hanno risollevato il reddito pro capite dai 37.277 dollari annui del 2010 ai 37.955 di quest’anno; sotto il loro governo la spesa per consumi ha conosciuto il record storico del Regno Unito con 276,4 miliardi di sterline (quando avevano vinto le elezioni del maggio 2010 stava a 260 miliardi circa). Il tutto ottenuto mentre venivano tagliate spese e fatti aggiustamenti di bilancio per la bellezza di 120 miliardi di sterline. Questi risultati però non sembrano tradursi in una crescita o in una conferma dei consensi, che anzi paiono destinati a erodersi di un paio di punti percentuali. Perché?

La prima ragione è che i salari sono aumentati troppo poco rispetto alle aspettative: depurati dell’inflazione, gli aumenti registrati sono stati dello 0,5 per cento nel 2013 e dell’1,4 per cento lo scorso anno; per quest’anno le proiezioni danno 1,2 per cento. Il motivo di ciò sono gli scarsi aumenti di produttività dell’economia britannica, che in proporzione ha perso terreno rispetto ai paesi del G7: il distacco dalla media del prodotto per ora lavorata dei Sette Grandi è cresciuto dal 15 al 17 per cento sotto il governo conservatori-libdem. La grande accusata per questo fenomeno è la politica di riduzione della spesa in investimenti infrastrutturali, iniziata dai governi laburisti di Tony Blair e proseguita da Cameron.

Il cappio del deficit
Per quanto riguarda la prossima legislatura, l’attuale ministro delle Finanze George Osborne annuncia che saranno necessari altri 12 miliardi di sterline di tagli alla spesa per welfare, insieme a misure pensate per la crescita come una riduzione delle tasse, per raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2018. Già, perché nonostante i forsennati tagli degli ultimi cinque anni il deficit non è sceso sotto il 5,7 per cento nel 2014 e il 4 per cento previsto per quest’anno. Perciò nel frattempo il rapporto debito pubblico/Pil è peggiorato passando dal 67,1 all’89,4 per cento in cinque anni. Il risultato è che oggi il Regno Unito spende per gli interessi del debito più soldi che per la propria difesa: 43 miliardi di sterline contro 37,4.

Un legame che non c’è più
I rivali dei conservatori non sfondano perché non ispirano più fiducia di loro. L’Institute for Fiscal Studies, organismo indipendente, prevede che per mantenere le sue promesse elettorali il partito Laburista dovrebbe trovare 130 miliardi di sterline più del bilancio attuale; l’istituto spiega anche che la Scozia quest’anno costerà 7,6 miliardi di sterline di debito in più a tutti i britannici, essendo il suo deficit pari all’8,7 per cento del suo Pil, contro il 4 per cento previsto per l’insieme del Regno Unito. Nessuna meraviglia che l’Snp susciti entusiasmi in metà degli scozzesi e ansie in tutti gli altri britannici.

Il risultato di tutto ciò, ma anche di evoluzioni che vengono da lontano, è la disaffezione dei britannici per la politica. L’Audit dell’Hansard Society che ha registrato il minimo storico di consensi sul ruolo fondamentale del parlamento nella democrazia del Regno Unito riporta che fra gli elettori più giovani (18-24 anni) coloro che snobbano il parlamento sono addirittura la maggioranza: solo il 46 per cento lo considera essenziale per la democrazia. Del resto fra i più giovani solo il 16 per cento dichiara che andrà a votare (contro il 49 per cento della popolazione in generale) e solo il 22 per cento dichiara di aver partecipato ad attività di natura politica nel corso dell’ultimo anno (contro il 44 per cento generale). Nel 2010 è andato a votare solo il 65,1 per cento degli aventi diritto, era andata peggio nel 2005 e soprattutto nel 2001, col 59,1 per cento.

Probabilmente quest’anno si ripeterà l’affluenza del 2010, ma con elettori sempre più sfiduciati e poco interessati. Il sistema elettorale britannico era molto apprezzato per il legame che creava fra l’elettore e l’eletto nel collegio. Stando all’Audit dell’Hansard Society, le cose non stanno più così: un elettore su due non è in grado di indicare quale candidato abbia vinto nel suo collegio, oppure indica il partito sbagliato. Questo dato si sposa bene con quello che mostra una crescente abulia dei britannici ad occuparsi del bene comune non solo a livello nazionale, ma anche quando questo riguarda la realtà locale. Quello dell’inglese impegnato negli affari del vicinato è un altro mito che crolla. Forse perché ritiene di non poter più incidere veramente nemmeno a tale livello: «Solo un rispondente su cinque dice di sentire di esercitare almeno “un po’ di influenza” sulle decisioni che vengono assunte nella sua area locale, il che significa una flessione di 6 punti rispetto all’Audit precedente e il valore più basso mai registrato nella serie degli Audit», si legge nel rapporto.
«Riflesso del declino nella percezione di poter esercitare influenza a livello locale, è anche il fatto che meno persone vogliono essere coinvolte nella presa di decisioni nelle loro aree locali. Questo indicatore ha fluttuato negli anni attorno al 43 per cento. Quest’anno ha perduto cinque punti scendendo al 38 per cento, il più basso livello mai registrato nella serie degli Audit». 

«L’importanza di noi astenuti»
Da sempre il Guardian perora la causa dei laburisti, ma recentemente ha deciso di concedere spazio all’intervento di un diciottenne che spiega perché non si è registrato nelle liste elettorali e pertanto non andrà a votare: «Non sono apatico, tutt’altro. Mi importa tantissimo delle questioni che riguardano me, la gente di tutto il mondo e il pianeta in quanto tale. Ma questa sollecitudine non si estende più alla partecipazione alle elezioni. Lo spettro della politica moderna non sembra offrire nulla, e votando un partito io conferisco legittimità a un sistema nel quale non credo più. Un sistema che appare perennemente truccato a favore di interessi che noi del pubblico non siamo mai del tutto autorizzati a riconoscere. E che è affollato da persone che hanno ripetutamente dimostrato di avere interessi e ambizioni molto lontani dai nostri. Non mi rassegno ad essere “rappresentato” da politici nei quali non ho fiducia. E di sicuro non voglio votare “tatticamente” per un partito che non mi piace, solo per sedermi in fondo e guardarlo imperversare per i prossimi cinque anni. (…) Sia che voti o che non voti, diventerò una statistica altamente simbolica. E una massa di astenuti e di voti nulli sarà più simbolica che mai. Il sistema elettorale, i partiti e i politici hanno bisogno di voti; non solo per salire al potere, ma più fondamentalmente per avere credibilità. Io, e forse molti altri, abbiamo deciso di non concedere loro quella credibilità».

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

Tags: cameronconservatoridemocraziafaragefinancial timesgran bretagnaInghilterralaburistimilibandukipWestminster
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