Saddam Hussein entrò nella stanza e appoggiò la pistola sul tavolo

Di Roberto Formigoni - Rodolfo Casadei
15 Aprile 2021
Così, nel libro intervista con Casadei, Formigoni ricorda i giorni di dicembre del 1990 in cui riportò a casa dall'Iraq 250 ostaggi italiani di Saddam
Roberto Formigoni con Tarek Aziz
Roberto Formigoni con Tarek Aziz, ministro degli Esteri dell'Iraq di Saddam Hussein, nel 2003

Esce il 22 aprile Una storia popolare, il libro intervista in cui Roberto Formigoni racconta a Rodolfo Casadei la sua vicenda politica e umana (Cantagalli, 536 pagine, 25 euro). Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo qui alcuni stralci dal capitolo dedicato alle “memorie irachene” dell’ex governatore lombardo.

Leggi anche l’introduzione del cardinale Camillo Ruini.

* * *

L’episodio più memorabile di quel periodo che ti riguarda e il blitz con cui nel dicembre 1990 riporti a casa 250 ostaggi italiani di Saddam Hussein rimasti bloccati in Iraq dopo che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu aveva condannato e sanzionato il governo di Baghdad per l’occupazione del Kuwait e gli Stati Uniti avevano cominciato a riunire la coalizione militare internazionale che poi avrebbe attaccato l’Iraq nel gennaio 1991.

Per me la crisi degli ostaggi comincia la mattina del 3 agosto ’90, quando vengo svegliato nella mia stanza in un hotel della Val Badia dove alloggiavo all’indomani della conclusione degli esercizi spirituali dei Memores Domini, che si erano svolti a Corvara. Era il mio primo giorno di vacanza: parlamento italiano e parlamento europeo avevano chiuso i battenti, gli esercizi erano terminati e io, stanchissimo, me la stavo prendendo comoda. Mi chiamarono in stanza dalla portineria: «Ci scusi, non sappiamo più come fare: continuano ad arrivare telefonate per lei. Ieri notte c’è stato una specie di colpo di Stato in Medio Oriente, e adesso stanno arrivando in continuazione chiamate per lei soprattutto dalla Lombardia». […]

Copertina di Una storia popolare, libro intervista di Roberto Formigoni con Rodolfo Casadei

In Iraq operavano decine di tecnici italiani specialisti del settore degli idrocarburi, in maggioranza originari della Lombardia, appartenenti ad Eni e Saipem; c’erano pure molti artigiani dei settori del mobile e dell’arredo, che lavoravano ad importanti commesse per i palazzi presidenziali e per l’aeroporto di Baghdad, anche questi soprattutto lombardi. Costoro temevano di non poter rientrare: avevano chiamato le famiglie, e queste stavano chiamando il deputato eletto nella loro circoscrizione. Avevano ragione: il 9 agosto l’Iraq chiuse le sue frontiere, e il 18 agosto annuncio che i lavoratori occidentali sarebbero stati trattenuti nel paese come “ospiti”. In Occidente la parola “ospiti” fu tradotta con “ostaggi” e poi “scudi umani”, man mano che si avvicinava lo scenario di guerra. Si diceva che gli occidentali sarebbero stati collocati nei pressi degli obiettivi strategici che la coalizione militare guidata dagli Stati Uniti avrebbe potuto colpire. Mi mossi subito, contattando il ministero degli Esteri e il ministro di allora, il socialista Gianni De Michelis, e l’unità di crisi presso la presidenza del Consiglio: a capo del governo c’era Giulio Andreotti. Mi attivai in termini di politica estera: ero convinto che il primo obiettivo da perseguire fosse la liberazione dei circa 10 mila ostaggi occidentali, di cui 250 italiani, trattenuti in Iraq, ma occorreva anche una soluzione negoziata della crisi che evitasse la guerra. 

Consideravo sbagliato l’approccio degli Stati Uniti e dei loro alleati, subito minacciosi, che avrebbe portato a una nuova guerra con grandi distruzioni e perdite di vite umane. L’Iraq aveva certamente compiuto un’azione inaccettabile, ma non bisognava peggiorare le cose e soprattutto dimenticare le cause che avevano portato a quella situazione. Tuttavia i giorni passano e nulla si muove. […] A quel punto che io concepisco l’idea di organizzare una missione italiana ufficiosa con esponenti di comunità religiose, della società civile e di amministrazioni locali. Sarà al mio fianco l’amico Aldo Brandirali, che ancora oggi devo ringraziare per l’aiuto decisivo che mi diede in ogni fase. La mia missione non impegna il parlamento europeo, di cui pure sono uno dei vice presidenti. Partiamo il 30 novembre in nove e voliamo su Amman. Da lì per via di strada ci dirigiamo su Baghdad, il cui aeroporto era chiuso perché tutti i voli internazionali erano stati cancellati. Attraversiamo con le jeep i 1.150 km di deserto fra la Giordania e la provincia irachena di Anbar e arriviamo nella capitale, dove avevamo molti appuntamenti. Incontro il presidente del parlamento, incontro il patriarca caldeo Raphael Bidawid, incontro Tarek Aziz, vice presidente dell’Iraq e unico cristiano presente nel governo, e al sesto giorno, insieme ad alcuni altri, sono invitato a incontrare Saddam Hussein. […] 

Veniamo caricati su un pulmino coi vetri oscurati che fa un percorso lungo e tortuoso prima di scaricarci davanti a una delle residenze del capo dello stato. Veniamo accompagnati in una saletta e fatti sedere; dopo non troppo tempo arriva Saddam Hussein in persona, in divisa militare. Il suo primo gesto è quello di prendere la grossa pistola che teneva in una fondina e di deporla sul tavolo tra lui e noi. Prendo la parola in italiano, come previsto dal protocollo, e faccio un discorso articolato: non sono tenero con la linea della coalizione occidentale, ma non sono tenero nemmeno nei riguardi delle azioni del governo iracheno. Faccio un discorso molto equilibrato e, credo proprio, saggio. Dichiaro che andare alla guerra sarebbe irresponsabile, ricordo le parole di papa Giovanni Paolo II a questo riguardo, ricordo il legame speciale e di reciproco rispetto che esiste fra l’Italia e il mondo arabo, col quale condividiamo l’identità mediterranea. Presento l’Italia come lo spazio geografico e politico della congiunzione fra Europa e mondo arabo; sottolineo che siamo e restiamo alleati degli Stati Uniti ma che non siamo d’accordo con la loro politica di fronte a questa crisi. Concludo chiedendo la liberazione di tutti gli occidentali rimasti in Iraq, in maggioranza italiani, lavoratori innocenti. 

Il colloquio con Saddam Hussein dura ben tre ore, anche a causa delle esigenze della traduzione; il rais non dice mai nulla che rappresenti un impegno da parte sua riguardo agli ostaggi, ma si dilunga in una dissertazione politica per convincerci che l’invasione irachena del Kuwait era giustificata. Insiste nello spiegarci che il Kuwait e storicamente parte del territorio iracheno, «e come se all’Italia fosse stato portato via il Friuli; il Kuwait e il nostro Friuli», dice letteralmente. Il lungo colloquio finisce […]. Tornati in albergo, nel pomeriggio chiamano solo me per un incontro con Tarek Aziz, e il vice presidente mi comunica che Saddam Hussein ha deciso di lasciar partire con me non solo gli italiani ma tutti gli occidentali che ancora si trovavano in Iraq, in totale circa 400 persone.

[…] Alla fine riporti in Italia tutti gli ostaggi, ma il ritorno non è affatto trionfale.

Proprio per niente! Non appena sappiamo che gli italiani possono lasciare l’Iraq, andiamo alla palazzina-struttura dove erano alloggiati e do loro la bella notizia: immaginate le scene di giubilo! Coi mezzi a disposizione si organizza una cena d’addio che è una festa: e presente una troupe della Rai che fa un servizio e lo spedisce subito in Italia. Io non vengo intervistato, ma il filmato mostra me che do la notizia del rilascio e i successivi festeggiamenti degli italiani: quale sia stato il mio ruolo, nel servizio non viene detto. Chiamo De Michelis e chiedo che mandino un Jumbo perché ci sono da trasportare circa 400 passeggeri: oltre ai 250 italiani c’erano gli altri occidentali cui Saddam ha concesso di aggregarsi a noi. La partenza viene fissata per le 6 del mattino di domenica 9 dicembre, quando in Italia sono le 4 di notte. Alle 7-8 del mattino avremmo dovuto essere in Italia. La partenza però ritarda, e a un certo punto l’ambasciatore italiano a Baghdad ci comunica una notizia sbalorditiva: da Roma fanno sapere che l’aereo non può partire perché la Grecia non permette il sorvolo del suo spazio aereo. Capisco subito che qualcuno in patria sta creando ostacoli. Telefono alla Farnesina e non uso nessun tatto: «Trovate un’altra scusa, questa non sta proprio in piedi. L’Italia è presidente di turno della Cee, e la Grecia e un paese della Cee. Non volete che sorvoliamo il loro spazio aereo? Dateci un’altra rotta, non dobbiamo passare per forza di lì». 

Per me era chiaro che volevano ritardare il volo per non dover dare la notizia nei telegiornali per tutta la giornata: non volevano che il pubblico vedesse che là dove non era riuscita la diplomazia italiana, aveva avuto successo una delegazione di straccioni (pensavo agli straccioni di Valmy, quelli che amava Cossiga) guidata da Formigoni. Passano le ore, e la risposta del ministero degli Esteri non cambia. Finalmente a sera inoltrata, dopo decine di telefonate ad Andreotti presidente del Consiglio, a De Michelis ministro degli Esteri e a un’infinita di funzionari, arriva il via libera e si decolla. In Italia centinaia di familiari degli ostaggi italiani si erano raccolti nell’aeroporto di Fiumicino per accogliere l’arrivo dei loro cari. Con loro c’erano troupe televisive, giornalisti, fotografi, ecc. A un certo punto le autorità italiane se ne vengono fuori con una furbata: comunicano a parenti e giornalisti che il volo atterrerà a Ciampino. In fretta e furia le famiglie e gli operatori della comunicazione si trasferiscono nel secondo scalo romano. Era una notizia falsa – fra l’altro a Ciampino un Boeing 747 non può atterrare, la pista e troppo corta – evidentemente congegnata per togliere ogni eco mediatica al ritorno in patria degli ostaggi italiani liberati da Formigoni. Infatti dopo le 11 di notte atterriamo a Fiumicino, e a riceverci non c’è nessuno, tranne il sottosegretario Franco Evangelisti, democristiano andreottiano, che si becca una raffica di improperi da parte mia. Improperi diretti al governo, ad Andreotti, a De Michelis, alla Farnesina, a tutti… Avevano deciso di impedire che l’opinione pubblica sapesse come erano andate le cose, e c’erano perfettamente riusciti. 

Poi, all’inizio di gennaio 1991 la coalizione internazionale attaccò e l’esercito iracheno fu distrutto in un mese. Quando il parlamento italiano discusse se concedere le basi aeree alla coalizione per l’attacco, e poi entrare ufficialmente in guerra con qualche unità, fui l’unico deputato della Dc a intervenire in aula, in un silenzio assoluto, contro l’intervento militare, e a citare l’ammonimento di Giovanni Paolo II sotto lo sguardo esterrefatto di Andreotti presidente del Consiglio. E un pugno di colleghi Dc mi seguì nel voto.

Foto Ansa

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