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Home Economia

«Finalmente l’Europa mette qualcosa in comune»

L’economista Alberto Quadrio Curzio risponde per filo e per segno a domande e obiezioni sul fatidico Recovery Fund. «Se non è un eurobond questo…»

Rodolfo Casadei
16/06/2020 - 11:40
Economia
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Ursula von der Leyen

Articolo tratto dal numero di giugno 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

La strada del Recovery Fund, come tutte le cose che riguardano l’Unione Europea, è molto lunga, e passa attraverso negoziati in sede di Consiglio europeo, voti dell’Europarlamento e approvazione del nuovo bilancio della Commissione europea. Già da ora, però, per il solo fatto che il principio dell’iniziativa sia stato accettato anche dai paesi che ne criticano i contenuti, il fondo rappresenta una novità irreversibile nella vicenda dell’Unione Europea. Alberto Quadrio Curzio, economista, docente emerito dell’Università Cattolica e presidente dell’Accademia dei Lincei dal 2015 al 2018, ha accettato di spiegare perché.

Professore, quale aggettivo definisce meglio la sua reazione davanti alla proposta di Recovery Fund uscita dalla Commissione europea? 

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Sono molto positivamente impressionato, perché dal punto di vista sia del metodo che del merito ci troviamo di fronte a grosse novità. Per la prima volta l’Europa, attraverso la Commissione che è sembrata rifarsi alla proposta Merkel-Macron, decide di emettere obbligazioni europee garantite dal bilancio europeo, collocate sul mercato finanziario e caratterizzate da lunghe scadenze. È una novità assoluta che in qualche modo dota l’Europa di uno strumento di politica economica complementare a quello della politica monetaria, gestito dalla Banca centrale europea (Bce). Nel merito, la suddivisione di queste obbligazioni tra finanziamenti per investimenti senza restituzione – non chiamiamoli finanziamenti a fondo perduto, espressione riduttiva e irriguardosa – e prestiti ai singoli paesi è una grande innovazione, tenuto conto che in passato ipotesi del genere erano state lasciate cadere.

Che dire dei tempi biblici dell’eventuale effettiva entrata in funzione di questo Recovery Fund? Sarà discusso a giugno e a luglio dal Consiglio europeo, dovrà essere approvato dal Parlamento europeo, eccetera: si va verso la fine dell’anno!

I tempi europei sono sempre stati lenti perché la democrazia europea è una democrazia complessa, non è una democrazia presidenziale, ma della condivisione. Tuttavia ci sono provvedimenti intermedi tra il lungo periodo della decisione e l’urgenza del presente. I provvedimenti intermedi sono rappresentati da tre decisioni relative a strumenti già operativi, che sono il cosiddetto Sure, il fondo da 100 miliardi di euro che è stato definito “cassa integrazione europea” e che serve anche per le spese sanitarie urgenti; i 200 miliardi della Banca europea degli investimenti (Bei) per andare incontro alle imprese attraverso prestiti che hanno tempi di restituzione di più di 50 anni, dunque estremamente scorrevoli (e l’Italia è un largo fruitore dei prestiti Bei); infine il Mes, sul quale in Italia si sta molto dibattendo, ma che comunque è uno strumento già fruibile. Dunque ci sono disposizioni finanziarie ponte da qui al momento dell’entrata in funzione del Recovery Fund, alle quali vanno aggiunte la sospensione del Patto di stabilità e di crescita e anche la sospensione delle regole sugli aiuti di Stato. Infine, la Bce non è stata ferma, tant’è vero che i tassi di interesse anche su titoli esposti come sono quelli italiani hanno ricominciato a scendere. Bisogna tenere conto dell’insieme, tenendo presente che la democrazia europea è una democrazia del consenso e come tale richiede dei tempi più lunghi di quelli di una democrazia presidenziale all’americana.

I 750 miliardi di euro di risorse del Fondo bisognerà prima trovarli e poi anche restituirli. Saranno parte del bilancio dell’Unione Europea, e il bilancio è fornito dagli Stati: dunque ci vorranno più versamenti e verosimilmente nuove tasse per coprire il bilancio ampliato. È una prospettiva che pone delle difficoltà all’Italia o che possiamo affrontare?

Non è proprio così. Per quanto riguarda il rimborso della parte prestiti del Recovery Fund, che per l’Italia dovrebbe aggirarsi attorno ai 90 miliardi, le scadenze di rimborso sono molto lunghe: dovrebbero stare in una forchetta che va dal 2028 al 2048. C’è tutto il tempo per provvedere ai rimborsi, soprattutto se i prestiti contratti verranno usati in modo adeguato, se cioè diventeranno prestiti reddituali. Per quanto riguarda la parte che non è prestito ma contributo, lì non c’è nessun problema di restituzione. Il problema ce l’avrà la Commissione europea, che a scadenza dovrà rimborsare ai sottoscrittori delle obbligazioni le obbligazioni stesse. Ma questo è un problema che riguarda la Commissione, non riguarda noi.

Riguarda anche noi nella misura in cui il bilancio della Commissione, che dovrà servire al rimborso delle obbligazioni, conta su versamenti degli Stati membri. Non a caso Ursula von der Leyen, presidente della Commissione, ha parlato di nuove tasse che serviranno a dotare il bilancio di maggiori risorse.

Ma le tasse di cui parla la Von der Leyen hanno una base imponibile molto precisa: sono border tax, tasse che si applicheranno ai confini dell’Europa su prodotti che incorporano dei dumping ambientali o sociali, e questo è importante. Se determinati prodotti che provengono dall’esterno dell’Unione Europea incorporano dei dumping sociali o ambientali, non possono essere trattati fiscalmente come gli altri. Questo la Von der Leyen l’ha già annunciato quando è stata eletta alla presidenza della Commissione, e ha scelto il commissario per l’Economia Paolo Gentiloni perché si occupasse di questo genere di tasse alle frontiere dell’Unione, che non riguardano i paesi europei ma l’esterno. Potrebbero riguardare l’Europa nella misura in cui andassero a colpire quelle imprese di paesi dell’Unione Europea che hanno delocalizzato in stati che pongono in essere dumping ambientali e sociali. Poi ci sarebbero le tasse sui giganti del web: Amazon, Google, Apple e Microsoft. Le trovo appropriate, perché questi giganti mondiali del web dominano tutto il mercato europeo senza essere europei, e pagano in Europa una quantità di tasse molto bassa rispetto al ricavato della loro attività. Queste due forme di tassazione vanno approfondite, ma non mi sembrano affatto forme di tassazione che vanno a gravare sul contribuente europeo: vanno a gravare su tipologie di redditi che non sono coerenti con le impostazioni dell’Unione Europea. In ogni caso è un problema più della Commissione che degli Stati nazionali. La Commissione avrà due problemi: come pagare gli interessi delle obbligazioni che emette e come rimborsare le obbligazioni quando arrivano a scadenza. 

I giganti del web non so se riusciamo a tassarli: sono ospitati in paradisi fiscali interni all’Unione Europea, come Olanda e Irlanda.

Credo che questo fatto renderà più morbida la posizione dell’Olanda, che oggi si mostra intransigente insieme agli altri paesi dei “frugal four”.

Non è una ragione di più dell’opposizione olandese al Recovery Fund?

In linea generale si andrà verso una tassazione non dico identica per tutti i paesi dell’Unione Europea, ma sicuramente convergente, perché nella misura in cui si va verso conglomerati industriali europei, è chiaro che questi avranno una tassazione unificata. Se Fca-Peugeot va a integrarsi con Volkswagen, e a costituire un colosso automobilistico mondiale capace di resistere alla concorrenza internazionale, è chiaro che non potrà avere una base di tassazione centrata sul singolo paese, ma usufruirà di una base di tassazione europea. I grandi conglomerati europei, prodotto di fusioni congegnate per resistere alla concorrenza mondiale, diventeranno giganti che hanno una base di tassazione unificata. 

In quattro giorni (18-21 maggio) il Btp Italia ha raccolto 22,4 miliardi di euro di sottoscrizioni, lasciando una domanda inevasa di 12 miliardi. Considerati i tempi e le condizionalità del Recovery Fund, quale sarebbe a questo punto il mix giusto per l’Italia fra nuovo indebitamento pubblico nazionale (Btp Italia), interventi della Bce, Recovery Fund? Quali le giuste parti per avere il cocktail perfetto, o almeno il migliore per le nostre condizioni?

È una domanda legittima, ma adesso non è possibile rispondere in maniera compiuta. Potrà avere una risposta solo quando l’emergenza coronavirus sarà conclusa. Credo non si possa rispondere prima dell’autunno: solo allora si vedrà se i mercati si saranno tranquillizzati: ci sono buoni segnali già ora, ma è presto per trarre conclusioni. Per quanto riguarda l’Italia, il nostro è un paese di fibrillazione politica permanente, e questo rappresenta per noi un handicap. Una quota del nostro spread non dipende dalla debolezza strutturale, ma dall’instabilità politica. I fondamentali economici dell’Italia sono in grado di reggere, è l’instabilità politica che determina una quota non indifferente del nostro spread.

Il bazooka della Bce, che ha annunciato acquisti di titoli per 750 miliardi di euro nei nove mesi da fine marzo alla fine dell’anno, sta sparando bene? Quanto conta la politica monetaria nella desiderata ripresa economica post-coronavirus?

Conta molto. Le emissioni del titolo che verrà collocato sul mercato finanziario internazionale potranno essere acquistate sul mercato secondario, e quindi anche dalla Bce. Come la Bce acquista i titoli della Bei – e attualmente credo che abbia già 250 miliardi di titoli Bei, Fei e altri analoghi europei in portafoglio –, allo stesso modo potrà acquistare i titoli del Recovery Fund. Di per sé la possibilità per la Bce di comprare i titoli emessi dalla Commissione europea terrà i loro tassi di interesse molto bassi, ed eviterà che questi titoli possano essere penalizzati dal mercato perché hanno scadenze lunghe. Una Bce con un bazooka da 750 miliardi di euro e una Commissione europea che emette 750 miliardi di titoli sono una bella combinazione.

Tutte queste misure di cui abbiamo parlato vengono messe in campo senza evocare gli eurobond o il concetto di mutualizzazione del debito. È una questione solo lessicale oppure si è fatto di tutto pur di evitare gli eurobond?

La sostanza è che questi sono degli eurobond. Se questa terminologia dà fastidio, evitiamo di usarla. L’Unione Europea attraverso il suo organo di governo comunitario emette dei titoli: che cos’è questo se non quello che fa un governo nazionale quando emette dei titoli di debito pubblico? È la stessa cosa.

Un’ultima domanda: stiamo sopravvalutando la sentenza della Corte costituzionale tedesca sui limiti del Quantitative Easing della Bce, o non la stiamo prendendo abbastanza sul serio?

La stiamo sopravvalutando. Tenete conto che nel comunicato della presidente Von der Leyen a commento di quella sentenza c’è la velata minaccia da parte della Commissione di deferire la Corte costituzionale tedesca alla Corte di giustizia europea per violazione dei trattati. Non c’è spazio perché quella sentenza abbia conseguenze.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

Tags: alberto quadrio curzioangela merkelbceCoronaviruseurobondEuropaMesquantitative easingrecovery fundtempi giugno 2020Unione Europeaursula von der leyen
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