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Fertilità artificiale, intelligenza in vitro

L’algoritmo che seleziona gli embrioni “giusti” mette a tacere anche le ultime domande sulla vita

Caterina Giojelli
25/05/2020 - 1:00
Società
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Si chiama Ivy, è intelligenza artificiale in purezza. L’hanno ribattezzato l’algoritmo per le gravidanze di successo, è stato sviluppato dalla Harrison.ai di Sydney che per mesi l’ha nutrito di dati e immagini di oltre diecimila embrioni covati da un’incubatrice per cinque giorni e incrociati con quelli derivati dalle gravidanze in seguito all’impianto: perché a questo serve Ivy, selezionare l’embrione più vitale, quello che ha più chance degli altri di venire partorito una volta impiantato nell’utero di una donna, l’embrione che in sei settimane darà origine al cuore palpitante di un feto.

IVY, PROGRAMMATA PER SCOVARE IL FIGLIO SANO

Il compito di individuare il migliore spetta in genere all’uomo, ma secondo Peter Illingworth, direttore dell’équipe medica australiana che sta sta conducendo una sperimentazione su mille persone per misurare l’efficacia di Ivy in Australia, Danimarca e Irlanda, soltanto un’intelligenza artificiale può arrivare a dedurre, sulla base del comportamento delle cellule embrionali analizzate per tutto il tempo in cui sono state in incubatrice, come si comportarenno una volta impiantate. Nessuno sa veramente quali siano i criteri guida di Ivy, né quale sarà il destino degli embrioni altrettanto vitali ma scartati perché meno performanti dalla sua intelligenza. Sappiamo che tra qualche mese, alla fine della sperimentazione, si capirà se il “materiale” selezionato dall’algoritmo porterà a un numero maggiore di gravidanze o meno rispetto a quello selezionato dagli specialisti: lo scopo – nonostante Ivy non sappia leggere il dna e individuare anomalie genetiche – è tradurre un ciclo di fecondazione in vitro in un “bambino sano”.

STORK PER ESSERI UMANI DI QUALITÀ

Ivy non è sola, l’anno scorso anche alla Well Cornell Medicine di New York si è iniziato a mettere a punto un algoritmo, Stork (cicogna), capace di selezionare gli embrioni migliori, ridurre il numero di cicli di fecondazione, di impianti e di gravidanze multiple, in altre parole, per usare quelle degli specialisti, di “standardizzare e ottimizzare il processo”: nulla come l’intelligenza artificiale addestrata su migliaia di casi può prevedere in modo “affidabile” la “qualità” di un futuro essere umano.

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IL BUSINESS DELLO SCARTO DEI BAMBINI DOWN

E sempre alla qualità dell’essere umano si lavora alla società cinese di biotecnologia BGI Genomics: un video, parte di un servizio di Al Jazeera e diffuso dal gruppo “Dont’ Screen Us Out” mostra una rappresentante del colosso specializzato in genomica, sequenziamento e bioinformatica di ultima generazione, raccontare i passi avanti compiuti dall’azienda nel fornire test e servizi di screening in gravidanza. La donna afferma candidamente che la divisione aziendale che si occupa di test prenatali per individuare anomalie cromosomiche in particolare quelli per rilevare la sindrome di Down o fetali (“i difetti del feto”, ricercati ogni giorno in oltre due milioni di campioni di sangue di donne in gravidanza) genera più della metà del fatturato aziendale, e permette a tutte le altre divisioni che si occupano di salute, medicina, nutrizione, assicurazioni, di crescere, una “mucca da mungere”. A chi solleva obiezioni etiche la donna assicura che non c’è alcun problema perché grazie alla tecnologia “possiamo scartare i bambini con la sindrome di Down, possiamo impedirne la nascita”, salvo poi tacere imbarazzata a chi commenta che si tratta di un un business terrificante.

FIGLI “DIFETTOSI”, UNA “VERGOGNA” PER LA BGI

Non è la prima volta che la BGI fa discutere, lo scorso anno un servizio di Bloomberg sulla sede di Shenzhen, dove è parte integrante della prestazione lavorativa allenarsi con panche, pesi, spin bike, fare squat sulle scale al posto di prendere gli ascensori e consumare pasti a basso contenuto calorico, veniva sottolineata la fissazione del co-fondatore e presidente Wang Jian per il “dipendente-pubblicità vivente” dell’azienza: qui ogni lavoratore e la sua famiglia sono incoraggiati a sottoporsi regolarmente a test genetici e screening di malattie come il cancro o la demenza senile, il fine è sostituire la genomica alla medicina, vivere fino a 99 anni, abitare un mondo senza disabili; sarebbe una “vergogna”, ha proclamato Wang, per uno qualsiasi dei suoi dipendenti avere un bambino con un difetto alla nascita, cosa che indicherebbe un fallimento nell’uso dei test prenatali di Bgi. “La Cina ha 85 milioni di disabili e il 70-80 per cento di queste disabilità deriva da difetti alla nascita”, aveva detto. “Noi possiamo davvero prevenirlo”.

CEDERE A UN ALGORITMO LA LIBERTÀ

È facile, nei grandi spazi distopici arredati con grandi touchscreen che schermano e tracciano le madri incinte con bambini “difettosi”, trovare tutto questo terrificante. Lo è molto meno nelle cliniche dell’infertilità dove a un algoritmo in camice è in fondo affidata la stessa missione: scremare il nostro partimonio genetico, scegliere l’embrione più performante. Quell’individuo a cui affidare tutti i desideri e condannato a tornare “grumo di cellule” qualora li tradisse. Non c’è più dramma, dibattito sul senso della nascita o battaglia da fare: l’algoritmo si incarica di ogni eventuale errore di scelta, e l’uomo è libero di non farsi più domande, avendo ceduto a un’intelligenza artificiale la propria libertà.

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Tags: embrioniivysindrome di down
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