Fare una scuola significa “toccare i fili”

Di Matteo Foppa Pedretti
21 Maggio 2021
Terza puntata di una riflessione in margine a uno scritto di don Antonio Villa: «Perché un cristiano “deve” fare una scuola?»
Scuola, cartelle e zaini appoggiati sui banchi in una classe

Terzo articolo di una serie – qui il primo e il secondo

La seconda “carica”, buttata lì da don Antonio Villa con nonchalance all’ultima riga del suo articolo, riguarda tutto: «E, cristiani come siete, non vi può aiutare sapere che “la realtà è Cristo”?».

Che non significa in termini spiritual – ecologico – panteistici o tecnopositivisti che la realtà materiale, compresa, governata e utilizzata secondo la tecnoscienza o la magia è il divino immanente (rischio mai stato così grande come in questi tempi), ma che la consistenza ultima di tutto è il Logos, il Verbo eterno fatto carne, «per mezzo del quale tutto è stato fatto, e niente di ciò che esiste è stato fatto senza di Lui».

Toccare i fili

Prendere di peso l’affermazione che “la realtà è Cristo” dal campo della letteratura religiosa, dalla biblioteca specialistica a cui noi cristiani che abbiamo studiato ogni tanto ci abbeveriamo, per farne il modulo costruttivo base e lo scopo reale per cui DOBBIAMO fare una scuola significa “toccare i fili”. E, si sa, chi tocca i fili muore.

Prima di tutto significa mettere in discussione il dualismo che ci perseguita da secoli. O quantomeno accorgersi di esso. La realtà è la realtà, res extensa e fenomeno. Questo, e questo solo si può conoscere. Questo, e questo solo si può insegnare. Il resto è inconoscibile. Auspicabile, forse. Ma anche no. Utile, può darsi, come lubrificante per la psiche. Bello, se vogliamo, e emozionante. Ma non è conoscibile. Non è pensiero. Non è ragione. E spacciarlo come consistenza della realtà o è fiction (e allora ci può stare) o è frode commerciale. Logicamente e sempre più severamente perseguibile per legge.

Lasciarsi guidare

Se le cose stanno così, l’unica scappatoia è conservare l’ambito morale come ultima ridotta, come residua presenza identitaria (di cui anche la scuola fa parte) per la quale chiedere diritti, privilegi e uno statuto speciale.

In uno degli ultimi documenti dei vescovi italiani, a proposito della nota legge in discussione in Parlamento relativa alla perseguibilità penale di alcuni giudizi su profili antropologici delicati (sì, sto parlando del ddl Zan…) si trova questa affermazione: «Riconosciamo di doverci lasciar guidare ancora dalla Sacra Scrittura, dalla Scienze umane e dalla vita concreta di ogni persona per poter discernere sempre meglio…».

Cosa c’entra con la matematica?

Se pensiamo che il richiamo alla “sola Scriptura” o è debolissimo (essendo la Sacra Scrittura fatta oggetto di processi ermeneutici fortissimamente improntati alle Scienze umane) o al contrario rischia di essere foriero di visioni “lettera liste”, quelle sì veramente fondamentaliste; e ancora che, nella situazione culturale che viviamo (e a scuola non è diverso) la “vita concreta di ogni persona” è compresa esclusivamente sulla base di metodi e criteri che afferiscono alle Scienze umane (o a quelle mediche…), l’unico spazio che rimane al cristiano nel pubblico agone (ma in generale l’unico spazio che gli rimane come cristiano in quanto tale…) è solo quello di una pretesa “expertise” morale. Che non avendo basi culturali (di metodo, criterio e capacità epistemica rispetto alla realtà), per sopravvivere non può che venire a patti sempre più umilianti con il potere.

Questo se le cose stanno così. Diverso è domandarsi “cosa c’entro Cristo con le stelle? Cosa c’entra Cristo con la matematica?”. Diverso pensare di DOVER fare una scuola il cui centro, origine e scopo sia il tentativo, declinato in mille modi, di rispondere alla domanda “Cosa c’entra Cristo con la consistenza di tutto”, come DNA di una cultura originale.

3 – continua. Foto Ansa

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