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Famiglie eterosessuali e omosessuali non sono uguali

In un libro di Elena Canzi, "Omogenitorialità, filiazione e dintorni", svelate le difficoltà dei figli nelle famiglie omosessuali

Lucetta Scaraffia
03/07/2017 - 17:04
Società
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gay-pride-shutterstock_227021455

tratto dall’Osservatore Romano – L’opposizione al progetto di formarsi una famiglia con la fecondazione assistita o con l’adozione si è basata finora su principi astratti, da alcuni interpretati come pregiudizi. Ma oggi abbiamo argomenti più concreti: da circa una decina di anni la sociologia, specialmente quella di tradizione anglosassone, ha sviluppato una serie di ricerche sugli effetti che può avere su un minore l’essere cresciuto da una coppia omosessuale.

In genere, gli autori delle ricerche sono partiti con il progetto di dare un’immagine positiva di questa esperienza. Un punto di vista “di parte”, che viene rivelato dalle metodologie seguite, e soprattutto dal fatto che a essere interrogati sono quasi sempre i genitori, i quali ovviamente sono interessati a fornire una rappresentazione positiva e rassicurante della loro condizione, e in particolare a trasmettere la serenità dei figli. Per ragioni di età — le esperienze di procreazione attraverso l’ingegneria genetica sono relativamente recenti — di rado i figli hanno potuto essere esaminati come testimoni attendibili: in moltissime situazioni, infatti, il percorso è lungi dall’essere compiuto, e quindi non può ancora essere concettualizzato dai protagonisti.

Una revisione critica delle ricerche fatte è offerta, oggi, dallo studio di Elena Canzi Omogenitorialità, filiazione e dintorni (Milano, Vita e Pensiero, 2017, pagine 144, euro 15), che procede a una puntuale e acuta disamina di queste indagini, delle quali denuncia i limiti di metodo, ma anche prendendo in esame le possibili conclusioni. Nel loro complesso, le ricerche vorrebbero dimostrare che non ci sono differenze fra i bambini che vivono in famiglie omosessuali e gli altri, focalizzandosi su due fattori: la qualità della relazione — in genere come è percepita dai genitori — e l’adattamento psicosociale. Seguono invece con molta minore attenzione i nodi relativi alla costruzione dell’identità, centrali soprattutto nell’adolescenza, nonché quelli legati all’origine, cioè alla ricerca del genitore mancante. Un altro limite rilevato è che nel campione in genere si mettono insieme i figli di coppie eterosessuali nelle quali successivamente un componente ha scelto una relazione omosessuale con i figli progettati fin dall’inizio da una coppia omosessuale, che ovviamente sono caratterizzati da problemi molto differenti.

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Le coppie omosessuali con figli, oggi, sono in larga maggioranza coppie di donne, e prevedono quindi la gravidanza di una delle due, esperienza che successivamente pone molte difficoltà alla cosiddetta “madre sociale”. Infatti, «se la presenza nella coppia di una madre e di un padre dà luogo a forme di attaccamento costitutivamente differenti, che non si prestano perciò a confronti e rendono facilmente accettabili eventuali preferenze, la presenza di due genitori dello stesso sesso inevitabilmente introduce il tema del confronto e l’interrogativo su quale dei due membri della coppia sia preferito dal figlio» scrive Canzi. Anche nel caso di coppia maschile questo nodo emerge con forza, ma con caratteristiche differenti: il necessario ricorso alla maternità surrogata infatti mette i due uomini su un piano paritario, anche se ovviamente il patrimonio genetico è trasmesso solo da uno dei due, e questo crea comunque una difficoltà. I figli nati dall’acquisto di seme rivelano poi di sentirsi disturbati dal fatto che il denaro svolga un ruolo decisivo nel loro concepimento, mentre si dichiarano a favore dell’adozione.

Tuttavia, senza dubbio la coppia genitoriale omosessuale realizza comportamenti più equilibrati nella divisione del lavoro domestico, si ispira a valori meno convenzionali, e le vengono pure attribuiti migliori indici di capacità comunicative e di risoluzione dei problemi rispetto ai genitori eterosessuali. Le indagini, come si è già rilevato, risultano in genere sbilanciate sul versante affettivo e dell’accudimento, cioè su atteggiamenti e comportamenti materni, mentre sono poco interessate a indagare come venga affrontata la funzione paterna. Un altro punto debole sta nelle difficoltà spesso provate dalle famiglie di origine della coppia di assistere e di aiutare figli o figlie che scelgono l’omogenitorialità, fatto che rende più difficile la vita della nuova famiglia. Una domanda che si sono posti i ricercatori è relativa all’orientamento sessuale dei figli: avere genitori omosessuali induce a una scelta omosessuale? La risposta che ci si aspetterebbe è che dimostrino in questo ambito maggiore anticonformismo, ma non è sempre così: spesso l’eterosessualità del figlio viene esibita per confermare la “normalità” della famiglia. Ma, esaminando le inchieste nella loro totalità, «sembra di poter rintracciare un trend comune, ossia una maggior probabilità di atteggiamenti e comportamenti omosessuali», specialmente nei figli di coppie costituite da due donne.

L’analisi del rendimento scolastico conferma pure che i figli di coppie omosessuali — se in maggioranza sviluppano livelli più elevati di rendimento — sono anche indotti a maggior uso di alcool e droghe, riportano livelli minori di autonomia e invece livelli superiori di ansia. E, paradossalmente, la stabilità del legame familiare, quindi anche il matrimonio, che per i figli di coppie eterosessuali costituisce una condizione positiva per la crescita, per loro diventa un ostacolo: «Sembrerebbe quasi che per i figli delle coppie omosessuali vivere in una famiglia ufficialmente riconosciuta e stabile venga percepita come condizione vincolata, senza possibilità di nuovi sviluppi». Inoltre, all’interno della dinamica relazionale, queste ricerche non mettono in evidenza le difficoltà legate alla figura del genitore “sociale”, quello cioè che non ha legame biologico con il figlio, verso il quale può verificarsi una sorta di rovesciamento protettivo da parte del ragazzo. Ed è sempre questa figura che costituisce un problema quando si va alla ricerca del genitore mancante.

Ma, soprattutto, le indagini non esplorano i sentimenti provati dai figli nei confronti del genitore mancante, il cosiddetto “donatore” di gamete, difficoltà che concerne anche coppie eterosessuali che hanno praticato l’inseminazione eterologa. Canzi rileva il fatto che la letteratura scientifica su questo tema raramente utilizza in proposito il termine “origine”, preferendo la definizione di “parentela genetica”, per cui le domande dei figli su questo punto vengono definite come “curiosità”, termine decisamente meno pregno di significato che non “ricerca delle origini”. Per di più, pochissime sono le ricerche che valutano se vi siano differenze tra i figli con donatore conosciuto o sconosciuto in termini di sviluppo psicologico e di benessere. Anche se risulta evidente che i figli con donatore sconosciuto subiscono una più pesante stigmatizzazione da parte dei compagni.

Certo, il problema dell’assenza dei genitori si pone anche nell’adozione. Qui, tuttavia, il genitore adottivo «non si sostituisce, ma piuttosto si fa carico di quel dolore di origine e lo ripara», mentre diverso è il percorso di chi per scelta procrea figli “orfani”. Come affrontare questo nodo cruciale se i genitori stessi sono responsabili del “vuoto di origine”? La ricerca del donatore da parte dei figli in questi casi, infatti, è difficile e faticosa, perché «è potentemente in contrasto con la scelta procreativa fatta dai genitori, specialmente nel caso in cui scelgono un donatore anonimo». Il rapporto più difficile è soprattutto quello con i coetanei, che spesso li sottopongono a derisione e bullismo, facendo emergere sentimenti di inferiorità e anormalità. Una stigmatizzazione che provoca diverse strategie adattative, nelle quali prevale quella di negare il problema, confessando la propria condizione solo a poche persone scelte. Certo, la partecipazione alla vita di comunità omosessuali, con figli relativi, può aiutare a rendere meno pesante questa situazione.

In sostanza, «i figli di coppie omosessuali riportano maggior ricorso all’assistenza pubblica, minor identificazione eterosessuale, maggior frequenza di relazioni omosessuali e minor senso di sicurezza sperimentato nella famiglia di origine». Emerge così un quadro complesso e certamente non univoco, dal quale però si deduce che è davvero difficile sostenere che non esista alcuna differenza tra i figli di famiglie eterosessuali e quelli di famiglie omosessuali.

Foto Ansa

Tags: coppie gayelena canziFamigliafigli coppie gayomogenitorialità
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