Articolo tratto dal numero di Tempi di novembre. Giovanni Maddalena, autore di questo articolo, è docente di Filosofia della comunicazione all’Università del Molise, studioso di semiotica, di Peirce, del pragmatismo americano e di Vasilij Grossman. Nel 2017 ha pubblicato con il sociologo Guido Gili per Marietti il libro Chi ha paura della post-verità?
Fake news, falsa notizia, è un termine che è entrato ormai nel linguaggio comune come un sostituto aggiornato dell’antico “balle!”. L’aggiornamento va bene ma forse ci vuole un po’ di chiarezza su che cosa s’intenda, perché lo si dica ora, qual è la posta in gioco nella stramba battaglia che da due anni si gioca su questo termine.
La faccio breve sulla terminologia e la tecnica ma qualche chiarimento ci vuole. Nella storia della comunicazione si divide l’epoca pre-stampa, quella della stampa caratterizzata dall’invenzione dei giornali e quella della società di massa, determinata dall’uso di mezzi di comunicazione come la radio e la televisione, nonché la massificazione della stampa. Internet, nella sua versione iniziale, e nella versione 2.0 che include l’interattività, determinano una quarta fase.
La scoperta della possibilità di modificare il pensiero altrui, anche di grandi gruppi, attraverso notizie false è propria di tutte queste epoche. La mela di Adamo – ricordata da papa Francesco come prima fake news –, la donazione di Costantino come fondamento del potere temporale della Chiesa, il telegramma di Elm che Bismarck utilizzò per creare il conflitto franco-prussiano del 1870 sono buoni esempi per capire le fake news nelle prime epoche della comunicazione.
Con l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa tutto cambia. Le notizie false vengono utilizzate nel senso di una creazione dell’intera realtà da parte delle ideologie totalitarie comuniste e naziste. Ma anche in ambito liberale si scopre ben presto che la manipolazione della notizia aiuta a vendere, fine ultimo del capitalismo liberista. È del 1923 il manuale di Edward Bernays che spiega tecniche di manipolazione oggi utilizzate da qualsiasi agenzia di comunicazione. Lo stesso Bernays ne diede una prova spettacolare. Nella domenica di Pasqua del 1929 fece sfilare davanti alla cattedrale di St. Patrick a New York delle modelle vestite succintamente (per l’epoca) e con sigaretta accesa. Egli stesso aveva avvisato il giorno prima i giornali, a cui aveva anche già fornito le foto scattate durante le prove. La marcia veniva annunciata come manifestazione per l’emancipazione femminile e come tale ebbe grande risalto sui media. In realtà, Bernays era pagato dall’azienda produttrice di sigarette che, attraverso le foto pre-disposte delle modelle che fumavano, usufruì di un’ottima campagna pubblicitaria a costi ridotti.
DAI NICKNAME AI FATTOIDI
L’esempio di Bernays ci introduce ai tipi principali di manipolazione della notizia nell’era della società di massa e di internet. Il nascondere l’identità o l’intento di chi comunica, in generale, si può chiamare opportunismo. Nel mondo web 2.0 il caso minimo è quello del nickname, il caso massimo – purtroppo – quello degli adescatori pedofili. Una seconda tipologia è quella della manipolazione dei frame, cioè delle cornici dentro cui si inquadra la notizia.
Il caso più classico del momento è quello del leader politico che fa vedere il proprio lato privato, “umanizzando” la propria figura. Il fine è ovviamente elettorale, ma la cornice confonde volutamente i piani. Che un politico sia un padre amorevole o tifi per una certa squadra o ami cucinare un certo piatto non dimostra nulla sulla sua capacità politica, ma la confusione dei piani accredita la seconda in base alle prime.
Una terza tipologia sono gli pseudo-eventi, il far diventare importante un’azione comune. Maestro e iniziatore del genere in alta politica è stato Ronald Reagan, che aveva installato per la prima volta un ufficio stampa nella Casa Bianca, ovviamente mai tolto dai successori di entrambi i partiti. Reagan aveva spiegato di volere una comunicazione “per inondazione”, ossia di voler occupare sempre la prima pagina dei giornali, con ogni mezzo. Il presidente che inaugura una scuola, che dà il calcio d’inizio a una partita, che cena con un’associazione – azioni banalmente normali – dovevano essere “notizia”, oggetto di gossip come se i politici fossero star di Hollywood. Adesso, in tutti i paesi occidentali, ci siamo così abituati a questa tecnica che facciamo persino fatica a pensare che le cose non debbano funzionare in questo modo, ma un minimo di riflessione fa risaltare l’evidenza della manipolazione: di per sé il politico dovrebbe governare, non fare eventi.
Un penultimo tipo è “l’incassamento” della notizia: la notizia non c’è, ma le parole che la comunicano diventano la notizia e vengono commentate, ri-commentate, ri-ri-commentate all’infinito. La politica dell’annuncio, che è stata la fortuna e la condanna di Matteo Renzi, l’uso motivazionale dei sondaggi (“vinciamo noi”, lo dicono i sondaggi) insegnato da Silvio Berlusconi a tutti i politici italiani, la discussione politica talk show che in Italia forma una terza Camera nel salotto di Bruno Vespa, fanno tutti parte di questo tipo di fake news.
Infine, esistono i fattoidi, la creazione di una credenza o un’allucinazione collettiva. Qui si va dal massacro di Timisoara del 1989, creazione solo mediatica del ritrovamento di fosse collettive al fine di accelerare caduta ed esecuzione del dittatore Ceausescu, ai 30.000 morti in piazza a Bengasi per giustificare il bombardamento in Libia del 2012. Dei fattoidi fanno parte i tanto temuti meme, piccoli video alterati o modificati, che girano in rete e creano notizie finte come la “pizzaconnection”, la convinzione che Hillary Clinton dirigesse un gruppo di pedofili in un sotterraneo di una pizzeria di Washington. L’uomo che vi fece irruzione armata per liberare i poveri bambini scoprì troppo tardi di essere stato vittima della sua bolla mediatica.
LA REALTÀ ALTERNATIVA E I SUOI PADRI
Perché tutta questa storia e questi tipi? Per far capire che il fenomeno non è nuovo, che chi si finge ora allarmato e sorpreso fa parte della comunicazione dei grandi media mainstream che hanno creato le tecniche che ora tutti applicano sui social, per rendersi conto che il problema non è limitato ai meme che creano tragiche confusioni, ma è invece articolato e complesso. Si dovrebbe anche aggiungere che tutto ciò è il frutto culturale di cinquant’anni del secondo dopoguerra in cui filosofi, sociologi, comunicazionisti, giornalisti, politici, intellettuali di ogni genere ci hanno insegnato che la realtà e la verità sono due concetti inutili e potenzialmente violenti. Guai a chi dice “la realtà è questa” o “la verità è questa”. Non ci sono fatti ma solo interpretazioni – secondo l’antico motto nietzscheano –, non ci sono verità ma solo opinioni.
Perché allora tutto questo improvviso scandalo per la manipolazione? Perché da due anni sembra che tutto ciò sia diventato un problema, se non il problema, del mondo occidentale? La risposta è semplice: perché hanno vinto una serie successiva di elezioni “quelli sbagliati”, non appoggiati dai media mainstream e dalle élite che hanno sempre avuto in mano il pallino dei mezzi e dei contenuti della comunicazione. La vittoria di Brexit e di Trump e il successo di altri movimenti, come i 5 Stelle in Italia o Manif Pour Tous in Francia, hanno fatto capire che soggetti “non autorizzati” si erano appropriati delle tecniche e delle filosofie che erano state fino ad allora patrimonio dei gruppi dirigenziali. Quando la Cnn ha mostrato le foto che mettevano a confronto la cerimonia inaugurale della presidenza Trump con quella di Obama e che smentivano l’annuncio della Casa Bianca sulla cerimonia più partecipata di tutti i tempi, la portavoce di Trump ha risposto di voler considerare «fatti alternativi», cioè di considerare come fatti altre interpretazioni. Le interpretazioni al posto della verità non erano più patrimonio delle élite culturali e dominatrici. I figli di cinquant’anni di cultura post-moderna si stavano per mangiare i loro padri. Allora è scattato l’allarme.
UN ARMAMENTARIO INUTILE
Nel tentativo di salvare la nave che affonda, le fake news, praticate e difese teoricamente per decenni dalle élite culturali occidentali, sono diventate improvvisamente il nemico. Ovviamente, però, si è data la colpa non all’intero complicato sistema di manipolazione di cui abbiamo parlato, ma solo ai fattoidi elettronici, ai meme, che, seppure diffusi ad arte e a pagamento da alcune agenzie internazionali, non sono affatto in grado di manipolare le elezioni di un paese. Invece di rimettere in discussione un modello culturale, una concezione della realtà e della verità, un mancato appoggio popolare ai governi degli ultimi anni, si è trovato un facile capro espiatorio per l’impensata sconfitta. Le fake news sono diventate il nemico da estirpare.
Due sono state le strategie principali pensate per difendersi dalle fake news. La prima è quella di un maggior controllo. Task force di gente impegnata a spiare la rete e censurare, cancellare, eliminare i falsi sono state assoldate sia dai grandi agenti internet, a cominciare da Facebook che, dapprima, ha provato a far diventare il controllo un gioco social con tanto di segnalazioni del pubblico e bandierine di infamia; ora, in occasione delle recenti elezioni americane di mid-term, ha provato a installare una “war room” dedicata alla sola politica. E destinata a fallire come sono fallite le bandierine. Come si è visto, infatti, il gioco del controllo funziona solo su pochissimi meme, cioè sui fattoidi. Ma come si fa a dire se l’annuncio del successo della prossima manovra italiana è una notizia falsa? O come si fa a dire se è vera o falsa la predizione di una vittoria? Se uno, per esempio, descrive un politico come “incompetente”, si tratta di una descrizione, di una calunnia o di un insulto? Se si discute per giorni sulla dichiarazione del governo italiano di voler sforare il rapporto deficit/Pil del 2,4 per cento, senza che nessuno abbia visto una legge scritta, si tratta di un discorso incassato. Occorre fermarlo? Bisognerebbe allora interrompere quasi tutti i talk show ed eliminare quasi tutte le notizie dei radiogiornali e tg molto prima di prendersela con la rete.
Insomma, in una parola, il controllo non funziona. Per fortuna, altrimenti si finirebbe in una sorveglianza sistematica del pensiero e della realtà, con comitati di esperti che decidono di fatto che cosa si può dire e che cosa no o, peggio ancora, che cosa è reale e che cosa no. Per paradosso, dopo aver difeso la realtà contro la sua dissoluzione in interpretazioni, occorrerebbe poi difendere la libertà di interpretazione contro l’assolutismo positivista della realtà imposta.
IL COMPLOTTISTA IN CATTEDRA
L’altra strategia di contrasto alle fake news è altrettanto dubbia, anche se meno inquietante. Per contrastare le fake news, dice questa seconda corrente, occorre insegnare a tutti il pensiero critico. Il rettore della Bocconi, per esempio, ha difeso questa strategia di inserimento di insegnamenti di logica elementare per aumentare la criticità del pensiero. In quanto docente di queste materie, non posso che essere favorevole all’aumento delle cattedre nei miei settori e male non farà. Ma gli esiti non saranno migliori della strategia precedente per quanto riguarda le fake news. Da un lato, infatti, il problema sfugge alla logica elementare del vero/falso. Spesso non sono gli argomenti a essere erronei o fallaci, ma le cornici all’interno delle quali gli argomenti vengono collocati. Inoltre, il pensiero critico nasce sovente dal razionalismo che è anche alla base del pensiero post-moderno che ha difeso le fake news come inevitabile interpretabilità del reale.
Mi spiego. Il pensiero critico pensa di essere molto diverso dal post-modernismo che ha attaccato realtà e verità. Tuttavia, nasce dalla stessa origine, pensando in fondo che siano la ragione dell’uomo e i suoi meccanismi a essere la misura del vero e del falso. Spesso chi crede nei fattoidi e si fa ingannare dagli pseudo-eventi è un iper-sospettoso critico che non accetta che la realtà sia quella data e segue ragionamenti deduttivi che partono da premesse sbagliate. Inoltre, come si è visto, sono spesso persone educatissime a essere ingannate dalle molteplici manipolazioni della comunicazione. Un collega professore universitario, sicuramente critico, mi diceva con convinzione che certo non si poteva eleggere come giudice della Corte suprema americana un uomo che da giovane aveva violentato una ragazza. Ho fatto molta fatica a convincerlo che il giudice Brett Kavanaugh era accusato non di aver stuprato ma di aver molestato una ragazza, senza ulteriori conseguenze. I corsi da fare sarebbero quelli di ragionevolezza e non di pensiero critico. La ragionevolezza è un atteggiamento di apertura verso tutti i fattori della realtà, è un’apertura a tutto, anche all’inaspettato, mentre il pensiero critico, che pure è necessario, è un controllo della logica interna del già noto.
Come si può educare a questa ragionevolezza, a questa apertura al nuovo senza abbandonare la verifica e, magari, la contestazione? La vera risposta alle fake news sono ambiti sociali – una volta li si chiamava corpi intermedi – in cui sia possibile un dialogo franco e reale, aperto alla critica fino alla contestazione, capace di interesse al nuovo e di lotta contro ciò che altera l’esperienza di ciascuno. Ovviamente, i primi corpi intermedi sono le famiglie ma poi esistono ancora, per fortuna, associazioni, gruppi, oratori, circoli, sindacati, liste civiche, partiti, scuole, centri culturali, fondazioni.
LA QUESTIONE DA RIAPRIRE
Esiste insomma una trama di relazioni strette, dove le persone sono così legate da interessi comuni da potersi permettere il lusso di essere sinceri, di contestarsi e richiamarsi, di andare a verificare, di considerare come autorevoli persone di esperienza. In quest’ultimo anno, in cui ho presentato molte volte il libro sulle fake news scritto con il collega Guido Gili (Chi ha paura della post-verità?) presso associazioni di ogni colore, scuole, università e festival, mi sono reso conto di quanto tale soluzione sia ancora una realtà vitale, almeno in Italia. Certo, anche questi corpi intermedi possono diventare totalitari e violenti, incapaci di accettare critiche e completamente assorti nella propria “bolla” che altera la realtà. I tragici esempi dei partiti totalitari del secolo scorso ne sono una prova. Tuttavia, è più probabile che in famiglia, in un gruppo di amici, in un partito, in un’associazione, in un sindacato io trovi una persona che stimo così tanto da lasciarle mettere in discussione ciò che dico piuttosto che trovarlo in rete o in qualche task force governativa o privata.
Così la vicenda delle “balle” in versione moderna dimostra la sua centralità culturale, mettendo in luce che non si può tornare a un positivismo per cui è vero solo il dato materiale – sempre controllato da chi ha più potere in un certo ambito – e che occorre riaprire la questione filosofica della ricerca della verità e quella politica della difesa dei corpi intermedi, sempre torturati dalla cultura liberal-statalista occidentale degli ultimi decenni.
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