L’Europa sempre più instabile e la guerra che continua
Si allineano gli astri a favore di un peggioramento delle condizioni politiche ed economiche in Europa. La guerra in Ucraina non si ferma, l’economia frena, il gas è un puzzle irrisolvibile, la diplomazia arranca. Partiamo dall’energia.
L’Europa divisa sulle sanzioni
Le prime sanzioni non hanno sortito gli effetti sperati: fino a che vende gas, petrolio e carbone la Russia non fallisce e prosegue con il suo piano militare. L’Unione Europea è al solito divisa, ci sono paesi indipendenti sul piano energetico e ce ne sono altri (Italia, Germania, Austria, Ungheria) che sono legati mani e piedi alle forniture di gas russo. Sospendere all’improvviso l’importazione significa la catastrofe industriale ed economica in un quadro già complesso. Il problema non sono soltanto le bollette dei privati, ma la capacità del sistema industriale di questi paesi di reggere a ulteriori aumenti vertiginosi del costo dell’elettricità (l’utilizzo “non domestico” del gas è l’80 per cento del totale).
Sotto la coltre di retorica e di strategie di guerra economica c’è una battaglia per la sopravvivenza dei sistemi economici nazionali europei. E qui veniamo alla questione economica. I colli di bottiglia delle supply chain non sono risolvibili nel breve termine, la compressione dell’offerta ci proietta verso uno scenario inflazionistico difficile da governare. La soluzione monetaria non è risolutiva: un rialzo anche lieve dei tassi rischia di avere un effetto lieve sui prezzi e di accrescere il costo del debito pubblico. Senza un rapido piano europeo che potenzi ulteriormente il Next Generation EU e conduca a forme di debito comune la recessione diviene molto probabile.
Le conseguenze di stagnazione e inflazione
A quel punto si entrerebbe in una dinamica di stagnazione e inflazione che aprirebbe le porte a cambiamenti politici oggi insondabili, ma probabilmente brutali. Populismo, nazionalismo e soprattutto la sostenibilità dell’euro come moneta unica tornerebbero in qualche tempo a rianimare il nostro dibattito politico. D’altronde una svalutazione dell’euro unita alla recessione potrebbe incrinare la legittimità politica della moneta riconquista negli ultimi tre anni aprendo ad una nuova fase di turbolenze politiche anti-europeiste. Questa incertezza dovrebbe portare della saggezza nei ragionamenti sull’embargo del gas russo in Europa.
Non si pone il dubbio sulla necessità di indebolire Putin e di sostenere la strategia americana, tuttavia si deve evitare che per perseguire un obiettivo di politica estera si apra la strada a una crisi interna profonda. Per paesi come Italia e Germania la rinuncia immediata e senza alternative al gas di Putin è un grave problema sul piano industriale e di conseguenza occupazionale e sociale. Considerata l’interconnessione dell’economia una crisi tedesca e italiana vuol dire una crisi dell’intero mercato europeo. Inoltre, non sappiamo se e in quanto tempo l’embargo totale del gas possa dispiegare i suoi effetti sul finanziamento della guerra.
Le condizioni per la rinuncia al gas russo
Dai primi pacchetti di sanzioni ci si aspettava di più e invece la Russia e la sua moneta ancora tengono. In definitiva si può fare ragionevolmente la rinuncia al gas russo soltanto all’avverarsi di due condizioni: un nuovo piano di copertura economica europea per mitigare gli effetti della rinuncia e soprattutto un accordo di diversificazione con gli Stati Uniti o con i loro emissari medio-orientali (Qatar). A Washington andrebbe fatto capire che non ci può essere rinuncia senza investimento americano. Il gas liquido deve attraversare l’Atlantico e arrivare con un prezzo simile a quello russo, proprio per evitare collassi economici europei.
In cambio l’Unione Europea può offrire un trattato di libero scambio, che era stato affossato proprio dalla politica americana degli ultimi anni. Ciò significa muoversi rapidamente sia alla Casa Bianca che a Bruxelles. Non è semplice poiché Biden sta cercando di salvare la sua maggioranza nel Congresso alle prossime elezioni di midterm mentre la lentezza della burocrazia europea nel reagire alle crisi, anche per i tanti interessi nazionali in gioco, è oramai conclamata.
Il quadro politico scomposto dalla guerra
Sullo sfondo c’è inoltre un grande riallineamento della politica europea. Victor Orban ha vinto nuovamente le elezioni in Ungheria dimostrando di nuovo la forza della destra nell’Europa orientale. Al tempo stesso, però, il gruppo di Visedgrad è spaccato sulla Russia: l’Ungheria è una colomba sul piano delle sanzioni, mentre gli altri paesi, con la Polonia in testa, sono falchi. Effetti che si replicano sul piano nazionale: la Meloni esulta per la vittoria di Orban, ma è schierata saldamente contro le mosse di Putin; mentre Salvini si mostra nebuloso e oscillante rispetto alla Russia. Conte cerca di intercettare un pacifismo anti-americanista di sinistra, mentre il Partito Democratico, che un tempo considerava la Polonia un paese autoritario e illiberale, oggi è sulle stesse posizioni di Varsavia in politica estera.
La guerra, insomma, ha scomposto il quadro che, in ogni caso, sarà prima di tutto condizionato dall’influenza imperiale americana. E quindi da un gelo ulteriore nei rapporti con la Russia e con la Cina, dall’espulsione dalle scrivanie dei futuri governi italiani di emissari russi e cinesi. Tuttavia, le incognite europee e nazionali restano molte: economiche, sociali e naturalmente politiche. Basti pensare che Marine Le Pen, sondaggi alla mano, ha oggi una qualche possibilità di vittoria in Francia contro Macron. La sola eventualità due mesi fa sembrava del tutto impossibile anche solo da considerare. Lo scenario è in movimento e la lancetta non punta in direzione della stabilità.
Foto Ansa
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