
Che fine farà il nostro bene quando lo Stato non ci sarà più?
Il libro è in formato agile e divertente. C’è una lezione magistrale, un dibattito vero, un apparato di note ottimo. Come tutti i grandi di ogni disciplina, Enrico Berti riesce a essere semplice e accattivante. Chi abbia poco tempo e fame di pensieri sostanziosi trarrà molto sostentamento dalla lettura di Il bene di chi? Bene pubblico e bene privato nella storia, appena edito da Marietti.
Un paio di indicazioni possono aiutare a orientarsi. Berti delinea la storia classica della nozione di bene, cominciata con l’appartenenza dell’uomo greco alla polis e cambiata in modo sostanziale dall’introduzione della libertà in senso ontologico portata dal cristianesimo e dalla sua problematica appartenenza allo stesso tempo alla città di Dio e a quella degli uomini. Una perenne difesa della libertà di adesione al bene (maior) e di scelta (minor) sovvertita dall’illuminismo con la sostituzione del problema del giusto a quello del bene. Fino all’esplosione del rapporto bene pubblico-bene privato e al conflitto tra Stato e società, che ha dato vita e forma tanto allo statalismo novecentesco quanto al libertarismo attuale, e all’estremo moralismo che soggiace a entrambi.
Proprio questo rapporto Stato-società è oggetto della proposta finale di Berti che, pur in modo cauto, preconizza la fine dello Stato nazionale moderno auspicando la realizzazione di qualche sistema più vasto dove vi sia più armonia tra il bene pubblico e quello privato. Secondo Berti in tale soluzione avrà ancora un ruolo decisivo l’appartenenza perché non vi è bene privato senza appartenenza sociale.
La natura di tale appartenenza è però la questione in gioco oggi, quando essa è stata così messa in discussione dall’individualismo e da una concezione intellettualista di autonomia e libertà. A che cosa si può appartenere oggi? Berti prende innanzitutto in considerazione la proposta di Alasdair MacIntyre che indica la soluzione nel recuperare l’appartenenza alle “comunità”, intese come luogo di tradizioni condivise. Berti critica questo modello perché lo trova – giustamente, a mio avviso – privo dei caratteri di universalità della concezione greca e di quella cristiana medievale. Propone invece un’appartenenza alla “società” (vs. comunità) in quanto frutto di accordo sui fini.
La soluzione, però, non ha la stessa forza del disegno. Certo, fa capire che siamo in un cambiamento d’epoca e in una vera crisi antropologica. Tuttavia, è una soluzione debole perché proprio il fine e il metodo di ricerca del fine sono in questione. In un’epoca segnata dall’erosione di ogni fine condiviso e dalla limitatezza dell’auspicato dialogo, occorre forse il coraggio di comunità che sappiano proporre il bene a cui aderire (libertas maior) – a scapito del “giusto” illuminista (ci sono versioni di giustizia diverse, ovviamente) – e che lo propongano con “gesti”, azioni determinate, decise e piene di significato. Una versione del comunitarismo dove le tradizioni siano gesti completi, vivi e di valore universale. Ma, forse, in questo caso, la soluzione è prima storica che filosofica. San Benedetto venne prima dei capolavori della logica medievale.
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