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Endorsement per una libertà pericolosa (dichiarazione di voto di un amico bertinottiano)

Amicone è uno che rischierebbe di farsi prendere a schiaffoni per inseguire un brandello di vero intravisto nel più assurdo dei suoi incontri. Anche con un ultrarifondarolo come me

Fabio Cavallari
03/06/2016 - 3:00
Politica
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amicone-mercato-milano

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Vivo come un dono la possibilità di esprimere il mio sostegno a Luigi Amicone. È un gesto, quello dell’endorsement, che mi dà l’opportunità di abbracciare un’amicizia e di palesarla pubblicamente. Eppure non sono ciellino, sono privo della grazia della fede, non ho mai votato un partito di centrodestra e ho fondamenta culturali che poggiano in terre ben diverse. Certo, oggi sono politicamente apolide come tanti, a tal punto da ritenere che la politica sia ormai irriformabile e il ceto politico senza alcuna possibilità di “resurrezione”. A meno che non facciano comparsa sulla scena gli “irregolari”. Soggetti talmente lontani dalla politique politicienne da apparire come schegge impazzite, ma vive, nell’ingranaggio degradato del pensiero progressista-efficentista omologato del nostro tempo.

Ebbene se c’è un “irregolare”, ma con una chiara identità, questo è proprio Luigi Amicone. Il mio sostegno, che vale quel che vale visto che non ho lustrini o stellette da barattare sul bilancino elettorale, prescinde dallo schieramento scelto (so che per lui non è così, ma io lo considero elemento del tutto irrilevante).

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Quando Amicone ha spiegato la scelta di candidarsi con Parisi, ha detto semplicemente che ha conosciuto la persona, e questo gli è bastato. Ora, in campagna elettorale, queste frasi le pronunciano tutti; il problema, se così vogliamo chiamarlo, è che per l’ex direttore di Tempi questa affezione alla persona rappresenta davvero la discriminante. Detto fuori dai denti, questa modalità, così desueta e antica, si chiama libertà. Attenzione, libertà non come “ideuccia” post-moderna per cui tutto si può fare, ma come quella predisposizione che ti fa dire, in antitesi con il noto pronunciamento della Costituzione francese del 1791, che “la mia libertà non finisce, ma inizia proprio lì dove inizia la tua”. Per Amicone la libertà è una relazione legata al Mistero, quindi intrinsecamente connessa con la realtà. Per Amicone il Mistero non è infatti qualcosa di cui ci occuperemo domani, o – come una certa vulgata cattolica tende ormai a declinarlo – un pensiero che dobbiamo riservare all’individuale e all’intima spiritualità: è un affare che riguarda il vivere quotidiano, il qui ed ora. Infatti se sulla strada gli si fa incontro un pluriomicida, un neofascista, un comunista o un reazionario impenitente, per lui si tratta di uomo che ha deciso di porre il suo sguardo in relazione, uno a cui si deve attenzione, cura, al di là di ciò che i suoi peccati, i suoi reati e la sua storia raccontano. Non valgono le categorie, le case di appartenenza, figuriamoci gli schieramenti!

Che vogliamo dire di questo atteggiamento? È consolatorio, razionale, opportunista? No. Una libertà di questo tipo ti pone con la faccia al vento, offrendoti la possibilità di fare incontri straordinari ma anche di farti prendere a randellate e schiaffoni dalla realtà. È una libertà pericolosa, poco funzionale ai meccanismi elettorali. Perché, a dire il vero, Amicone è vent’anni che fa politica, solo che questa volta si è messo a bisticciare con il giochino del consenso. Dovrebbe lisciare il pelo a destra (molto meno a manca) e al centro, cercando di non andare a sbattere contro gli amici di sempre che ora sono sparsi un po’ ovunque. Il problema è che il suo afflato verso le persone non ha certo un’ermeneutica elettorale. Incontra chi la vita gli pone innanzi. Questa libertà non so come potrà portarlo in Consiglio comunale, ma so bene quanto sarebbe utile vederla entrare nei luoghi delle istituzioni.

«Allora sei un piccolo borghese!»
Ora, io non è che dico tutto ciò perché mi è venuta voglia di fare l’analisi psicanalitica di Amicone, ma perché di quella libertà ne ho percepito la carezza.

Sono passati quattordici anni. In quel tempo a Luino sul Lago Maggiore, con un gruppo di altri “irregolari” fuoriusciti a sinistra da Rifondazione Comunista (perché un conto era il Subcomandante Fausto, ben altra cosa il Partito), formiamo un “collettivo” e organizziamo un convegno su Pasolini, coinvolgendo la città, poeti “laureati”, registi sul pezzo, le scuole superiori e il vasto panorama di quella sinistra governativa ragionevole alle prese con il secondo governo Berlusconi. Tra i tanti decidiamo di invitare anche un giornalista cattolico, per non scivolare nella solita retorica pasoliniana. La scelta cade su Luigi Amicone, per il semplice fatto che qualcosa di interessante e poco conformista sul poeta di Casarsa, lo aveva scritto. Di lui però sappiamo poco o nulla, figuriamoci lui di noi. Decide di venire per il semplice motivo che glielo abbiamo chiesto. A differenza degli altri relatori non sappiamo cosa verrà a dire.

La piega che prende il convegno a noi ultrarifondaroli piace poco. Del resto siamo nell’epoca veltroniana, con la testa e il cuore nel continente nero, del buonismo come riedizione nostrana del politically correct, e gli interventi dei vari relatori non fanno altro che ricalcare malamente quel modello. Sino a quando interviene Amicone. Anche lui vede la platea e capisce che non può martellare come vorrebbe, cerca di onorare l’ospitalità ma si capisce che è irrequieto. Il moderatore lo interrompe pregandolo di attenersi all’intellettuale Pasolini senza entrare nei termini della politica. Al quel punto Luigi sbotta, e gli scappa un: «Ma allora tu sei un piccolo borghese!». La sala rimane in silenzio, ma noi del collettivo rosso saltiamo in piedi, è una liberazione! E giù applausi. Da quel momento, Amicone ne dice di ogni, le barriere sono infrante, spacca la platea per il nostro giubilo. Alla fine dell’incontro lo invitiamo a cenare con tutti, ma si vede costretto a declinare l’invito perché «devo tornare a casa. Ho sei figli e non posso stare in giro troppo. Ma ci rivediamo».

Noi ci guardiamo un po’ barcollanti, obbligati a confessarci che l’unico che ci ha scaldato il cuore è un ciellino che non si è preparato manco una virgola, un po’ folle, cattolico nella vita più che nelle parole. Succede così che la serata la trascorriamo con il progressismo nostrano. È il 9 febbraio 2002. Il giorno prima Berlusconi, allora presidente del Consiglio, aveva partecipato al vertice informale dei ministri degli Esteri dell’Unione Europea in corso a Caceres, in Spagna, e in posa per la classica foto di famiglia con i colleghi europei si era messo a fare le corna all’omologo spagnolo Josep Piqué. I giornali non parlano d’altro. E cosa accade durante la cena? Gli intellettuali che avevamo chiamato per dibattere di Pasolini si scatenano indignati.

Un “compagno” a Tempi
Non passa la notte e scrivo una lettera al direttore di Tempi, racconto l’accaduto e dico: «Questi si appellano all’onorabilità dell’Italia nel mondo! Sono intellettuali che di fronte al satanico gesto si sono sentiti defraudati della loro italianità. È gente che sventola ancora la bandiera rossa, difendendo la sacralità istituzionale, l’aplomb, il portamento, la seriosità, l’atteggiamento politicamente corretto, il buon gusto. Ma non dovevano fare la rivoluzione?». Amicone non ci pensa due volte, pubblica la lettera e dopo qualche giorno ci incontriamo.

Noi del collettivo, seppure tutto sia già crollato, sconfitto e quasi sepolto, gli parliamo della Rifondazione, dell’oppressione del modello capitalista, dell’alienazione, di Rosa Luxemburg e via discorrendo con tutto l’armamentario. Ma non c’è verso, tra le pieghe delle parole, lui è interessato a noi, a chi siamo, alle nostre vite, a tal punto che mi propone di curare una rubrica per il suo settimanale cattolico, anzi ciellino, Tempi. Si inventa un titolo: “L’ultimo comunista”. A me sembra un po’ eccessivo, per cui concordiamo per “Visti da sinistra”. Sul momento penso che quell’uomo è folle, ma al contempo è così visceralmente umano, ancorato alla vita e alla realtà, che mi viene da chiamarlo “compagno”. Ha un’idea della libertà che mi ricorda il primo Marx, quello di “Sulla questione ebraica”. Nei primi mesi lo sfido. Fatico a credere che possa davvero far valere la sua indipendenza, senza porre dei freni. Scrivo che le nuove Br sono riformiste (uccidono uomini per difendere l’articolo 18), faccio l’elogio del senatore Colombo beccato a pippare cocaina, sostengo Rifondazione come neppure in Rifondazione riuscivo a fare perché le virgole erano importanti. Mai una volta mi ha bloccato o ammorbidito un articolo.

Capisco la sua libertà quando mi invita al Meeting a Rimini e non vuole cooptarmi ma condividere l’amicizia, e infatti diventiamo Amici. Combatto accanto a lui, sempre da una posizione marxista, per la difesa della persona, contro il 41 bis, l’eutanasia, la pena di morte, propongo interviste a Pietro Barcellona quando ancora la conversione era lontana e a Fausto Bertinotti, amico e maestro che della libertà ha la medesima visione, che nel 2008 e poi nel 2013 ci dice già le cose che va dicendo ora. Amicone non lo fa per interesse dello scoop e neppure per compiacersi di parole che hanno rispetto del trascendente. No. Lo fa perché è interessato alle persone, alle loro storie, a quel brandello di vero che abbiamo tutti da condividere. Se vivo di scrittura lo devo a Luigi. Ancor di più devo a lui questa idea di libertà, abituato come ero a dividere tra i colori, a ritenere i programmi (che andavano riscritti sessanta volte, controllando anche i punti esclamativi, perché carta canta) il mantra e le persone uno strumento per affinarli.

Preghiere sgangherate per Lucilla
Poi nel 2005 sua figlia Lucilla si ammala di leucemia. Me lo dice e io, che non so pregare, vado in crisi. Da amico vorrei stargli accanto, far percepire la mia presenza, abbracciare e dar forza. Avevo purtroppo già affrontato situazioni dolorose, anche definitive, ma la prossimità mi era venuta in soccorso. In quel frangente, invece, ci sono di mezzo un centinaio di chilometri, il mio lavoro e il suo. Non posso vivere la quotidianità. Capisco però che in lui vive la speranza, un po’ come follia e certamente come fede. A me resta la follia, ma da sola non basta. Così gli confesso il mio disagio e lui trova un espediente, che non so quanto sia teologicamente corretto, ma tant’è. Mi dice: «Tu fai così, di’ una preghiera, ma prima anteponi queste parole: “Io non so, ma il mio amico mi ha chiesto di chiederti…”». Io non ho la fede ma conosco l’amicizia e a un amico non è che chiedi le prove, le testimonianze scientifiche, la prassi metodologica. A un amico rispondi, offri nei limiti delle tue possibilità tutto ciò che puoi dare. Lucilla è guarita. La mia sgangherata invocazione al cielo non c’entra nulla, ma ho imparato che la fiducia è quella sorella un po’ bislacca di quella fede, tutt’altro che semplice, dei credenti.

Ora, il mio endorsement potrebbe apparire un afflato amicale. E invece è anche un gesto politico, perché gente così, soprattutto in questa epoca storica, è talmente preziosa da divenire indispensabile. Non perché Amicone non commetterà errori, anzi. Quella libertà che gli fa dono è in qualche modo una presenza scandalosa. Come scandaloso potrà apparire a taluni il mio sostegno per un tizio che si candida nelle liste di Forza Italia.

Al netto di tutto ciò, una cosa è sicura: se Amicone riuscirà a entrare in Consiglio comunale a Milano, porterà di certo avanti le battaglie di una vita, ma soprattutto non farà mai un passo indietro davanti a un cittadino che lo fermerà per la strada per chiedergli qualcosa. Forse ci metterà del tempo per studiare i regolamenti del Consiglio, con tutta probabilità dovrà dotarsi di un’agenda interattiva che lo obblighi a ricordarsi degli orari delle sedute. Non sarà un consigliere perfetto, non ci sono dubbi, ma ascolterà tutti, guarderà le persone al di là delle loro declinazioni di appartenenza, così come ha fatto con me, e non ci saranno priorità di corrente, anche perché credo che Amicone sia ancora un anarco-resurrezionalista, privo di una claque gramscianamente costruita.

Bisogna essere scandalosi
Ricordo, sempre nei primi anni della nostra conoscenza, di averlo incrociato un giorno al Meeting di Cl. Assieme a un branco di disgraziati come me, ci siamo messi in auto per Rimini con il sostanziale obiettivo di incontrarlo. Quando lo becchiamo tra gli stand, capiamo però che alcune personalità di onorata e provata discendenza lo stanno coinvolgendo in qualcosa. Si sa quanto sia importante per un direttore di un piccolo settimanale corsaro mantenere legami, costruire quel minimo di rapporti strategici utili alla sopravvivenza. Lui però quando ci vede liquida tutti con un saluto sbrigativo e si unisce a noi in un abbraccio che gli farà inevitabilmente perdere “incontri” imperdibili al Meeting e probabilmente anche qualche “relazione” che gli sarebbe tornata sicuramente utile.

La verità è che a Luigi Amicone non sono mai interessate le “relazioni strategiche”, ma le “relazioni umane”. È un po’ folle certo, ma anche assolutamente indispensabile. E diciamolo, in un Consiglio comunale a occuparsi della stesura dei protocolli ci penseranno i tecnici, ma ci vorrà pur qualcuno capace di raccogliere la bellezza della strada e i volti degli amici e degli avversari. Ecco perché votare Luigi Amicone (e decidete voi l’accoppiata e caso mai pagate pegno) è un esercizio di libertà. Certo, è anche scandaloso, ma allora siate scandalosi. Non saremo ancora qui a indignarci per un paio di corna! 

Tags: Luigi Amiconepasolinipietro barcellonaSilvio Berlusconi
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