Ebola, missionario in Sierra Leone racconta la sconvolgente quotidianità di un paese dove ormai «scoprire di avere la malaria è un sollievo»
Padre Paganelli, come si è diffuso Ebola in Sierra Leone?
I primi sintomi sono comparsi nel mese di marzo in Guinea, in Sierra Leone sono emersi a maggio. I primi casi si sono verificati nella provincia di Kailahun, nella parte orientale del paese. Ci avevano assicurato che il virus sarebbe rimasto isolato in quell’area. Dicevano che si sarebbe risolto tutto velocemente. Invece, quando a luglio sono arrivato in Italia ho capito che la situazione era più grave di quanto pensassimo: Ebola era arrivato anche dove vivo io, a Makeni, nel Nord della Sierra Leone, e che due infermiere erano morte.
Come mai non si è riusciti ad arginare il contagio?
Molta gente è stata convinta che non si trattasse di Ebola, ma di una maledizione dovuta alla stregoneria. C’era chi non prendeva precauzioni. All’inizio molte persone partecipavano anche ai riti funebri per i conoscenti uccisi dal virus, toccavano tranquillamente il corpo del defunto e venivano contagiate. Purtroppo qualcuno continua a pensarla in quel modo, i malati scappano dal maleficio e contagiano altre persone, così dalle città il virus si è diffuso nei villaggi. È di questi giorni la notizia che un un’ambulanza con a bordo alcuni contagiati è uscita fuori strada perché presa a sassate da alcuni uomini del villaggio che non credevano all’esistenza del virus. Gli ultimi ultimi tre villaggi messi in quarantena sono situati proprio nella provincia in cui vivo.
Dalle città il virus si sta diffondendo nelle campagne. Quante persone sono coinvolte ad oggi?
Il peggio ora si sta verificando a Waterloo, nella periferia della capitale Freetown. I morti e gli infetti aumentano di giorno in giorno. I dati di lunedì parlano di 500 decessi confermati solo al Nord. Nel paese gli infetti sono 3.624 con 1.044 morti sicure e altre 343 sospette. La situazione è davvero critica.
Da dove arrivano gli aiuti?
La prima azione è della Chiesa, che sensibilizza ed educa per far comprendere alla gente che Ebola è reale, che si diffonde in un modo preciso e che il contagio si può prevenire. Insegniamo come lavarsi le mani, a usare la candeggina, a non toccare i liquidi. Di per sé sono istruzioni semplici, che possono davvero prevenire il contagio, ma solo se eseguite precisamente. C’è un’altra cosa fondamentale da fare: la gente di questo paese è abituata ad aiutarsi a vicenda di fronte ai drammi peggiori, come la recente guerra civile, e ora vive nel terrore del vicino; per questo dobbiamo continuare, nonostante i rischi, ad avvicinarci alle persone per non lasciarle sole in preda alla paura. Spieghiamo ai familiari delle vittime come seppellire i loro cari, senza funerali. Per gli africani è un un vero trauma non celebrare i riti funebri, quindi appena muore qualcuno ci rechiamo sul luogo e preghiamo sulle salme per confortare le famiglie.
Il governo come agisce?
Sta facendo uno sforzo per aiutare i villaggi in quarantena dandoci riso e latte per i bimbi che poi noi portiamo alla gente. Le autorità del Paese hanno chiesto sempre a noi di sostenere i sopravvissuti, che grazie a Dio sono un bel gruppetto, ma che spesso le famiglie respingono per paura di essere contagiate. Stiamo quindi aiutando queste persone a reintegrarsi.
Si parla anche di un numero crescente di orfani.
È rivolta a loro l’ultima attività che abbiamo intrapreso. Oggi sono stati identificati otto orfani di Ebola, per aiutarli ci stiamo appoggiando alla diocesi di Albano. Ovviamente la Chiesa si oppone alla costruzione di orfanotrofi, che gli africani così legati alla famiglia non accetterebbero mai: sarebbe troppo in un momento in cui già tutte le abitudini di un popolo sono stare sovvertite. Quindi tramite gli aiuti economici della diocesi italiana sosterremo le famiglie e i parenti affinché accettino o adottino chi è rimasto senza genitori.
Con quali forze riuscite a muovervi su tutti questi fronti?
Con tutte le forze che abbiamo: venticinque parroci con venticinque parrocchie di cui ognuna si è munita di una task force per recarsi nei villaggi. Ci sono poi una trentina di membri della Caritas e una trentina di persone dalla nostra Università cattolica di Makeni che lavorano con noi. Il coordinamento si ritrova in episcopato, dove stiamo già pensando alla fase successiva.
Ossia?
Come dicevo, qui non si muore soltanto: stanno cambiando le relazioni umane, la gente ha perso il lavoro, perché le compagnie hanno ridotto le attività e di conseguenza sono diminuite anche quelle dei negozi, che vendono poco. E in un’economia di sussistenza, dove si guadagna oggi per mangiare domani, la mancanza di impiego è ancora più drammatica. Anche gli ospedali sono chiusi per il rischio di contagio. Ormai esistono solo alcuni centri dove le persone sospettate di aver contratto Ebola vengono messe in quarantena, e pochi altri dove sono curate. Questo significa che chi ha la malaria, ad esempio, non sa a chi rivolgersi. Infatti stanno aumentando le morti causate anche da altre malattie. Noi camilliani abbiamo chiesto aiuto ai confratelli romani per riaprire l’ospedale in questa provincia, garantendo alti standard di sicurezza. Ma peggiori saranno i danni psicologici e umani. Ecco perché servono anche terapeuti per chi ha perso famiglia e magari non ha potuto nemmeno piangere i propri cari. Speriamo poi di riaprire la scuola a gennaio, altrimenti perderemo un anno intero.
Pensa che le cose possano migliorare?
C’è chi dice che a dicembre i contagi cominceranno a diminuire. Lo spero, ma ho dei dubbi: è vero che in città va meglio, ma Ebola si sta espandendo nei villaggi a macchia d’olio.
Cosa sta facendo l’Occidente?
Qui in Sierra Leone sono arrivati i militari inglesi che aiutano per la logistica, ma mancano i medici. Abbiamo bisogno di personale specializzato più che di soldati. Anche se ci hanno promesso l’arrivo di una nave militare che funga da ospedale.
Non teme per la sua vita?
La settimana scorsa avevo 39 di febbre e mi sono autoisolato per non mettere in pericolo altre persone. Non avevo paura. Certo, non è stato bello, ma mi sono messo nelle mani del Signore e Gli ho detto: «Se è arrivato il momento sono qui, prendimi».
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