È tutta colpa di Trump

Di Leone Grotti
30 Agosto 2024
Nella campagna elettorale più faziosa di sempre, i giornali italiani (e non solo) accusano il candidato repubblicano di tutti i mali del mondo e si sciolgono in lacrime per gli slogan dem: «Gioia, aborto, libertà: tutto questo è "Kamalà"»
Donald Trump
Donald Trump (Ansa)

Donald Trump

Donald Trump (Ansa)

La campagna elettorale negli Stati Uniti, letta attraverso le lenti dei media italiani, sembra una gara di tiro al bersaglio. E nel mirino, neanche a dirlo, c’è Donald Trump. Più che mai colpevole di tutti i mali (presenti e futuri) della società, sia americana che internazionale.

Anche se non è stato lui a guidare il paese più potente del mondo negli ultimi quattro anni, il tycoon è comunque responsabile di ogni cosa: odio, divisione, guerra, cambiamenti climatici, disinformazione, povertà, immigrazione, inflazione e chi più ne ha, più ne metta. Per fortuna, scrivono i giornali con cadenza quotidiana, sulla strada verso la Casa Bianca si è frapposta la sfidante Kamala Harris, la salvatrice della patria, con le sue parole d’ordine che eccitano la Stampa: «Gioia, aborto, libertà: tutto questo è “Kamalà”».

Trump è il capro espiatorio di ogni male

La campagna elettorale americana impostata dai democratici, la cui linea è fedelmente seguita dai giornali, si basa su due comandamenti: il primo è non parlare mai di programmi e di che cosa non funziona in America e nel mondo (qualcuno potrebbe ricordarsi che la Harris è da quattro anni la vicepresidente degli Stati Uniti e che avrebbe potuto fare qualcosa a riguardo), il secondo è elevare Trump a capro espiatorio di ogni male.

Emblematica, in questo senso, l’intervista concessa da Kerry Kennedy a Repubblica. La settima degli undici figli di Bob Kennedy, nipote di Jfk, si è scagliata contro il fratello Robert, che si è macchiato del reato di “sostegno a Trump”.

«Trump è un dittatore razzista e fascista»

Dice Kerry con i toni moderati che contraddistinguono la campagna di Kamala Harris:

«Sono indignata e disgustata dall’immagine del corpo di mio fratello stretto in un abbraccio adolescenziale a Trump. Mio padre avrebbe odiato le menzogne, l’egoismo, la rabbia, il cinismo, il razzismo e le simpatie fasciste di Trump. La deliberata disinformazione sui vaccini, il suo crudele sberleffo ai diritti umani, la sua indifferenza per le persone che soffrono in America e nel mondo».

Trump, continua la Kennedy,

«è una minaccia per i valori, i diritti e le libertà più elementari che sono alla base della nostra identità di americani. È una minaccia per il diritto delle donne di controllare il proprio corpo, di vivere in comunità al sicuro dalla violenza delle armi e di amare chi si ama. Sarà un dittatore: è una minaccia per il clima e la sopravvivenza stessa dell’Ucraina».

La candidata del Partito democratico, Kamala Harris
La candidata del Partito democratico, Kamala Harris (Ansa)

Quanto è democratica Kamala Harris

Non manca nulla, anzi manca tutto ciò che conta e che può interessare al popolo americano, ma che non deve essere mai citato. Come spiega Repubblica, gli strateghi della Harris si sono raccomandati con la vicepresidente di «non parlare del programma». Detto fatto: la convention di Chicago è stata un’apoteosi di «gioia e libertà». Mentre Trump, il puzzone, veniva definito una «minaccia per la democrazia».

Qualcuno nel campo repubblicano ha notato che in realtà è la Harris a essere stata candidata dal Partito democratico senza aver ricevuto un singolo voto popolare, senza avere mai rilasciato un’intervista (per la prima con la Cnn, stanotte, si è portata dietro anche una “stampella”, il suo vice Tim Walz) e senza avere esposto neanche un punto del suo programma. Ma non conta, perché il pericolo è il tycoon.

Vietato parlare di ambiente

Per scongiurare la vittoria del «preferito dai tiranni della Terra» (Bill Emmott), i media sono disposti a sorvolare su tutto. Anche sulla più “giusta” delle battaglie, quella ai cambiamenti climatici. Non è sfuggito che alla convention di Chicago la Harris non abbia fatto parlare l’inviato speciale americano per il Clima, John Kerry. Nessuna parola a favore della transizione green, né contro i combustibili fossili e neanche una piccola demonizzazione del fracking. Come mai?

Lo spiegano gli ambientalisti duri e puri d’America: «L’obiettivo è sconfiggere Trump», ben venga dunque il silenzio. Che serve, spiega Repubblica, a non mettere in allarme «chi vive di fracking nella decisiva Pennsylvania o chi teme l’aumento della benzina e i costi sociali della transizione verde».

In realtà, spiega Federico Rampini sul Corriere, l’Amministrazione Biden-Harris, «malgrado la propria adesione all’ambientalismo, ha già visto un aumento nell’estrazione di energie fossili, c’è stato un boom dell’industria energetica americana». Gli ambientalisti dovrebbero essere molto arrabbiati e invece no, perché secondo la vulgata non potrà essere che Trump a distruggere l’ambiente e la Harris a salvarlo.

Fact-checker disoccupati

Nella campagna elettorale più faziosa della storia, alla Harris è concesso dire tutto ciò che vuole, senza che i fact-checker di professione si mettano al lavoro: può affermare, ad esempio, che Trump «vieterà l’aborto a livello federale» (anche se il tycoon si è attirato le ire del mondo conservatore proprio dicendo che non lo farà mai) o che Trump «minaccia di lasciare la Nato» (anche se ha dichiarato più volte il contrario, salvo chiedere agli altri membri dell’Alleanza di pagare quanto pattuito, al pari di Biden).

Addirittura, i media hanno accusato l’ex presidente repubblicano di «avere un programma per il Medio Oriente non coerente» (Yehudah Mirsky) e negativo per Israele, contrariamente alla Harris. Dichiarazioni stravaganti se si pensa che il tycoon è riuscito durante la sua presidenza a far firmare gli storici Accordi di Abramo, mentre la vicepresidente deve mordersi la lingua ogni volta che tocca l’argomento per non farsi scappare una dichiarazione a favore della Palestina.

Il tiranno Trump e la censura della Harris

Ma nella lotta contro il “Male”, tutto ma proprio tutto vale. E così i giornali informano che persino i migliori interpreti di musica country hanno abbandonato Trump per passare con la reginetta della gioia, Kamala Harris. E come poteva essere altrimenti? Kamala incarna addirittura la “verità”, come ha gridato dal palco della convention di Chicago Oprah Winfrey: «Scegliamo la verità, scegliamo Kamala».

Chissà se nel concetto democratico-mediatico di verità rientrano anche le pressioni della Casa Bianca su Meta, proprietaria di Facebook, per «censurare» post riguardanti la pandemia di Covid 19 e la storia, che avrebbe potuto cambiare le elezioni del 2020, del laptop del figlio del futuro presidente, Hunter Biden. In una lettera indirizzata alla commissione Giustizia della Camera Usa, l’amministratore delegato di Meta, Mark Zuckerberg, ha ammesso che non avrebbe dovuto piegarsi alla censura e che avrebbe dovuto essere più «neutrale» durante la campagna elettorale.

Se la richiesta di censura fosse arrivata da Trump, i giornali avrebbero potuto fare titoli a tutta pagina sul “dittatore” che prepara il suo regno di terrore. Invece era arrivata dalla premiata ditta Biden-Harris, quindi meglio nascondere tutto in un trafiletto a fondo pagina.

Se il colpevole di tutto è Trump, del resto, le notizie che non collimano con lo storytelling dominante non possono che essere obliate. E per fortuna che politica e media, dopo l’attentato al tycoon del 13 luglio, avevano giurato di ammorbidire i toni.

@LeoneGrotti

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.