La preghiera del mattino

La sconfitta di Draghi è soprattutto quella di Mattarella

Mattarella Draghi
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, firma l'atto di scioglimento delle Camere con il presidente del Consiglio dimissionario, Mario Draghi (foto Ansa)

Su Formiche Marco Mayer scrive: «Ma Berlusconi non fa mai niente a caso. Andrea Cangini, Maria Stella Gelmini e Renato Brunetta sono la punta di un iceberg di una vasta area liberale e moderata di Forza Italia che è stata colta di sorpresa. Azzardo un’ipotesi: forse perché Berlusconi vede le cose da Milano e non da Roma. Non lo dico perché a Milano ha sede la storica partnership tra Mediaset e Huawei, ma per un discorso molto più ampio. Milano è da sempre il crocevia dei grandi business italo-russi e italo-cinesi. Per Berlusconi business is business e l’opposizione politica interna al suo partito ha le mani legate».

Ho molto rispetto per la propaganda elettorale ma questa non può essere scambiata per un’analisi politica. Mayer cerca di descrivere un partito putiniano di centrodestra come causa scatenante della crisi del governo Draghi, ma in realtà il centrodestra a traino Meloni è diviso ormai tra “polacchi” cioè l’ala più radicale dell’atlantismo, e “repubblicani americani”, meno interventisti della maggioranza dei democratici (tra i quali peraltro non mancano i maggiormente trattativisti a cui era collegato anche Mario Draghi prima di essere sgridato da un Ian Bremmer legato alla Casa Bianca che lo definì un possibile “Schröder italiano”). Naturalmente non è inutile osservare come in Italia opera un partito “cinese” (quello cioè dotato di una strategia internazionale, impossibile per un partito filo-russo) che però è legato soprattutto a un Beppe Grillo che fino a qualche settimana fa era il guru del nostro Talleyrand alle vongole, Luigi Di Maio (una personalità mossa più da pulsioni tipo Totò cerca casa che da ideali politici), a Massimo D’Alema che influenza ancora un bel po’ di Pd, a Romano Prodi che interpreta anche posizioni ben vive in Vaticano. Ragionare in questo senso sui fattori internazionali che condizionano la politica italiana richiede un po’ più di sforzo di quello che tendono a produrre i volonterosi galoppini elettorali messisi oggi in movimento.

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Sul sito di Tgcom di Mediaset si scrive: «“Non volevamo far cadere Draghi, ma si è reso indisponibile a un bis. Probabilmente era stanco e ha colto la palla al balzo per andarsene”. Lo ha detto il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi. “In ogni caso ha scelto lui e adesso siamo già al lavoro per un nuovo governo di centrodestra. Noi siamo una forza responsabile, non abbiamo nulla da spartire con i 5 stelle. Abbiamo fatto parte di una maggioranza di unità nazionale e di un governo che io ho voluto che nascesse”».

Con il suo solito pragmatismo Silvio Berlusconi va al cuore del problema: la crisi del governo è nata dalla volontà di Mario Draghi di non costruire una nuova maggioranza una volta che si è sfilato il Movimento 5 stelle. Quali le cause? Stanchezza? Senza dubbio. Un po’ di imperizia? In effetti quando l’esponente di punta nel governo del partito di maggioranza relativa si scinde dal proprio partito, il presidente del Consiglio (e quello della Repubblica) non dovrebbero far finta di niente. Risentimento? Non manca nel premier uscente soprattutto verso Sergio Mattarella, il cui segretario generale Ugo Zampetti è stato il protagonista dell’intrigo per non farlo salire al Quirinale. Consapevolezza che le prossime tappe non si potevano affrontare all’interno di una campagna elettorale, ahimè, inevitabile (entro l’estate del 2023 comunque si sarebbe votato? Certamente c’è anche questo fattore). Altro che “Italia tradita” come recita il nostro giornalista collettivo. Siamo di fronte al caso di un dignitoso guerriero che ha scelto di riposarsi un po’ (magari tornando buono per una prossima occasione).

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Sulla Nuova Bussola quotidiana Stefano Fontana scrive: «La caduta di Mario Draghi può essere intesa come la fine di un governo tecnocratico e di emergenza nazionale, qualcosa di simile a un governo istituzionale: un’ampia maggioranza in Parlamento, un presidente stimato per i successi ottenuti in campo finanziario internazionale anche se non eletto, la benedizione del presidente della Repubblica. Vedendo le cose in questo modo, la fine del governo Draghi potrebbe sembrare non avere un significato politico. E invece ce l’ha. Con lui non finisce solo una serie di tentativi tecnici per affrontare un periodo di emergenza. Ora non si tratta solo di inventarsene altri. La fine di questo governo porta via con sé anche un quadro politico il cui autore principale e titolare del copyright non è tuttavia Draghi, ma Mattarella. La sconfitta in parlamento di Draghi, con quella beffa della fiducia di minoranza, è più la sconfitta di Mattarella che non di Draghi. Sconfitta temporanea? Questo lo si vedrà. Ma intanto è bene non equivocare sui confini tra il tecnico e il politico: Draghi porta via con sé un quadro politico di riferimento che è stato possibile col patrocinio del Quirinale. Questo mi sembra il punto».

Fontana ritiene che la scelta di andare a votare il 25 settembre non costituisce tanto una sconfitta di Draghi quanto di un Mattarella che si era messo di dirigere la politica italiana in tutti i suoi particolari. Mi pare un’analisi corretta. Poi il voto deciderà se si potrà chiudere l’infausto periodo inaugurato da Giorgio Napolitano tra il 2008 e il 2011, e proseguito fino al 2022, di far governare l’Italia solo “dall’alto e dal fuori”.

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Sugli Stati generali Jacopo Tondelli scrive: «A valle c’è il Franceschini di oggi, che dalle colonne del Corriere, con l’intuito di chi “è sempre seduto dove si siederà la maggioranza” (sempre Renzi), e il mandato quindi di rappresentarne da subito la voce, battezza il nuovo schema di gioco: ed è più che impossibile che non ci sia un solido accordo con Enrico Letta, sul tema. Ed eccoci qui, al nuovo schema: dopo l’autoesilio scelto da Conte, e dopo l’iscrizione al club draghianissimo chiesta da Carfagna, Gelmini e Brunetta, l’asse si sposta un po’ verso il “centro”. Il nuovo “campo” – se largo o stretto lo diranno gli elettori – è una nuova colazione che dovrebbe comprendere Carfagna e Cuperlo, Brunetta e Speranza, Gelmini e Orlando, Calenda e gli amici di Landini, Di Maio e Confindustria. Difficile che Matteo Renzi non abbia un ruolo, in questa pagina di cronaca che naturalmente dichiara di ambire alla storia. Tutti uniti nel nome di Draghi, del Draghi che è stato fino a ieri, e poi si vedrà».

Tondelli scrive che Enrico Letta su regia di Dario Franceschini sta cercando di mettere in piedi una coalizione Pd-centristi draghiani che sostituisca il naufragato “campo largo” con i 5 stelle, utilizzando la paura di una destabilizzazione dell’Italia come carta elettorale. Un acuto osservatore come il direttore degli Stati generali non può non mettere in luce le contraddizioni programmatiche di questa impresa (tenere insieme Confindustria e Cgil, per esempio), e osserva anche che vi sono più generali che truppe. In realtà, più che generali (che pur non mancano come Matteo Renzi e forse la stessa Mara Carfagna), abbondano i cavalli pazzi come il coltissimo, simpaticissimo e intelligentissimo Renato Brunetta, persona assai capace nelle scelte tecniche ma inadatta ad assume un qualsiasi ruolo di direzione politica (anche Carlo Calenda credo abbia queste caratteristiche), e i sergenti maggiori tipo Maria Stella Gelmini, ottima nel far applicare gli ordini ma incapace di impegni più complessi, come ben sa chi rammenta la sua disastrosa esperienza di ministro dell’Istruzione.

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