Dimmi come insulti Trump e ti dirò chi sei
Per gentile concessione del Catholic Herald, proponiamo di seguito in una nostra traduzione un articolo di Matthew Schmitz, senior editor di First Things, apparso il 4 novembre 2020 nel sito del mensile cattolico britannico. La versione originale inglese è disponibile in questa pagina.
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Fino a non molto tempo fa, era normale per la sinistra accusare la destra di amare la guerra e di odiare i poveri. Lo slogan più memorabile delle proteste contro la guerra in Iraq nel 2002-2003 era “No Blood for Oil” (“Niente sangue per il petrolio”). L’idea che la destra desse più valore al vile denaro che alle vite umane era ancora viva e vegeta non più tardi del 2012, quando la sinistra ritraeva Mitt Romney come un capitalista senza cuore. (Le foto di Romney che letteralmente lancia soldi all’epoca di Bain Capital non furono di aiuto, né lo furono le sue critiche al 47 per cento di americani che non pagano tasse sui redditi).
Oggi la coalizione di sinistra condanna la destra in termini decisamente diversi. Invece di accusarla di avidità e sete di sangue, la sinistra accusa la destra di razzismo, fascismo e xenofobia. Tali accuse in genere ci dicono poco delle persone contro le quali sono utilizzate. Servono a bastonare, non a descrivere. Indicano non solo come la sinistra vede i suoi oppositori, ma come vede se stessa.
Il cambiamento nella natura delle invettive della sinistra riflette i mutamenti in atto nelle realtà politiche. Quando accusava la destra di essere avida e guerrafondaia, la sinistra si identificava come il partito della pace e della difesa dei deboli. Ma mano a mano che la base elettorale del Partito democratico saliva di censo e la sua retorica diventava più interventista, ha dovuto trovare nuovi termini con cui avvilire la destra.
Nel 2018 i democratici si sono ripresi la Camera dei rappresentanti stracciando i repubblicani nelle circoscrizioni più ricche. Come ha osservato Darel Paul, un politologo del Williams College, in 12 stati diversi i collegi elettorali più ricchi sono passati dai repubblicani ai democratici. Questi ultimi ora rappresentano 21 dei 22 collegi più ricchi a livello nazionale. Il reddito mediano dei collegi democratici è oggi pari a 61.000 dollari, contro i 53.000 dollari dei repubblicani.
Data la circostanza, non è molto convincente da parte della sinistra accusare la destra di essere il partito dell’avidità. In conseguenza di ciò, la retorica dei politici di sinistra è mutata. Nel 2016, Hillary Clinton ha detto durante un comizio della sua campagna elettorale: «Se domani faremo a pezzi le grandi banche – e io lo farò se se lo meriteranno, se rappresentassero un rischio sistemico – questo metterà forse fine al razzismo? Metterà fine al sessismo? Metterà fine alla discriminazione nei confronti della comunità Lgbt? Questo spingerà forse la gente da un giorno all’altro a essere più accogliente verso gli immigrati?».
Evocare razzismo, omofobia e xenofobia consentiva alla Clinton di sminuire le questioni economiche durante la campagna elettorale. Dopo aver perso la corsa alla Casa Bianca, si è vantata del potere economico dei suoi sostenitori: «Ho vinto nei posti che rappresentano due terzi del prodotto interno lordo dell’America», ha detto. «Ho vinto nei posti che sono ottimisti, variegati, dinamici, quelli che vanno avanti. Invece tutta la sua [di Trump] campagna, “Make America Great Again”, guardava indietro».
Le dichiarazioni della Clinton associano il basso livello economico con l’arretratezza culturale. Indubbiamente in questo qualche elemento di verità c’è. Il politicamente corretto è una forma di galateo particolarmente rigida e caratterizzata da una forte carica ideologica. Come ogni codice di comportamento sofisticato, impararlo bene richiede tempo e allenamento. In genere questo comporta impiegare molti anni e decine di migliaia di dollari in istruzione superiore. È improbabile che una persona munita soltanto di qualifiche di scuola superiore adoperi con altrettanta perizia i mutevoli linguaggi e protocolli della correttezza politica.
Un cambiamento analogo ha avuto luogo nella politica estera. Quando i democratici e i loro alleati nei media affrontano questo argomento, di solito è per accusare il presidente Trump di mancanza di forza e di rifiutare un sostegno ai nostri alleati. Trump, intanto, ha criticato la leadership militare, ha attaccato quello che un tempo era chiamato il complesso militar-industriale e ha contestato la linea interventista.
«Non dico che le forze armate mi amano, ma i soldati sì», ha detto il presidente a settembre. «I vertici del Pentagono probabilmente no perché non vogliono fare altro che combattere guerre, di modo che tutte quelle meravigliose società che producono le bombe e producono gli aerei e producono tutto il resto siano soddisfatte».
I pezzi grossi si sono entusiasmati per Trump tanto quanto lui si è entusiasmato per loro. A giugno Jim Mattis, generale dei Marines in pensione ed ex segretario della Difesa, ha criticato Trump in una lunga intervista con Jeffrey Goldberg del The Atlantic. Biasimando la reazione di Trump alle proteste di Black Lives Matter, ha detto: «Dobbiamo respingere e inchiodare alle loro responsabilità quelli che sono al potere e si fanno beffe della nostra Costituzione». La sinistra ha applaudito ai generali come Mattis, ragion per cui diventa arduo accusare il presidente repubblicano di essere un guerrafondaio. Serve, anche qui, un tipo di denuncia diverso.
Una retorica feroce è una componente naturale della politica democratica. Ma comunque vadano a finire le elezioni, queste linee di attacco si sono dimostrate inefficaci. Trump ha ottenuto un sostegno mai visto prima da parte degli elettori neri e ispanici, e mentre scriviamo gode di un vantaggio di 10 punti su Biden tra le famiglie dei soldati, malgrado quel che ne pensino i pezzi grossi. Che Trump rimanga in carica o meno, la sinistra continuerà ad architettare modi per screditare una destra che non può più essere liquidata semplicemente come serva di Mammona e di Marte.
Foto Ansa
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